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Fallo per me

Mi chiamo Claudia, ho diciannove anni e sono innamorata. Antonio ha undici anni più di me ed è incredibilmente figo. Tutte le mie coetanee mi invidiano, ma io sono sicura che lui ami solo me. Fra noi l’amore è nato con un colpo di fulmine e per dimostrarmi la sua lealtà, una settimana dopo che ci siamo conosciuti, si è fatto tatuare il mio nome sul braccio. “Così tutti sapranno che mi appartieni”, mi ha detto. Mi telefona spesso. Si arrabbia se non gli rispondo: ha troppa paura di perdermi. Una sera sono scesa in taverna a guardare un film e ho dimenticato il cellulare in camera. Mi sono addormentata proprio nell’istante in cui avrei dovuto rispondere alla sua chiamata. È così innamorato di me che ha pensato che lo volessi lasciare e si è precipitato a casa mia. Stava praticamente sfondando la porta, quando mio padre gli ha aperto. Ha creduto al fatto che fossi al piano di sotto, solo quando mi ha visto. Il mio dolce amore era così spaventato che per poco non mi ha stritolato tra le sue braccia. Un’altra volta ho sentito lo squillo del telefono in ritardo, perché ero sotto la doccia. Quando ho risposto, mi ha coperta di insulti, ma non mi sono offesa, perché so che le sue parole erano dettate dalla preoccupazione. Le sue continue attenzioni mi lusingano. Quando usciamo, vuole che mi copra bene. È geloso: mi vuole solo per sé. Facciamo l’amore tutti i giorni, anche più volte al giorno. Non posso dirgli di no. Se lo faccio, mi accusa di non amarlo più. Io invece voglio che sappia che gli sarò fedele fino alla morte. Per questo lascio che lui giochi col mio corpo, anche quando sono stanca o non lo desidero. Un paio di settimane fa ho parlato di lui a mia madre. Sostiene di essere un po’ preoccupata, perché da quando sto con lui, non esco più con le mie amiche e ha paura che la possessività di Antonio nei miei confronti prima o poi mi si ritorca contro. “Sei ancora molto giovane, puoi trovare centinaia di ragazzi migliori di lui. Non devi fare la schiava di nessuno, nemmeno del tuo uomo. Che tu non voglia lasciarlo perché non piace a me, è comprensibile, ma devi pensare a te stessa e al tuo futuro. Se non vuoi farlo per me, fallo per te: salvati fin che sei in tempo!”. Ho provato a spiegarle che la sua gelosia è motivata dal fatto che mi ama follemente, ma lei non riesce a capire. Ragiona proprio come quelle sceme delle mie amiche. Sono così invidiose della mia storia d’amore che mi hanno fatto un discorso molto simile. Anna, la mia ex – migliore amica, mi ha perfino chiesto di scegliere fra lei e Antonio. “Ci ha tolto ogni spazio che avevamo, non vuole nemmeno che tu venga a casa mia per un tè. Sei la sua fissazione, la sua mania. Io non credo che il vostro sia un rapporto sano. Non pretendo che lo lasci, ma che t’imponga, esigendo qualche attimo per te stessa e per le tue amiche. Se non vuoi farlo per te, fallo per noi, fallo per me!”. Non credevo potesse essere così superficiale: non ha capito che il nostro è amore vero e che non possiamo fare a meno di stare sempre insieme. Come può pretendere che scelga lei invece dell’amore della mia vita? Antonio è tutto quello che ho sempre sognato: un uomo d’onore, con principi forti, basati sulla fedeltà e sulla lealtà. Non mi importa se dovrò lottare contro tutto e contro tutti per stare con lui. Anche mia sorella mi ha messo in guardia sugli uomini gelosi, ma lei la posso capire. Si è da poco separata dal marito, perché la picchiava selvaggiamente e senza ragione. Ovviamente ha perso fiducia in ogni uomo, ma Antonio non alzerebbe mai le mani su di me senza motivo. L’ha fatto solo una volta, ma è stato per colpa mia. Eravamo insieme da poco e volevo testare quanto fosse reale il suo attaccamento per me. Così ho finto di essere al telefono con un altro e, quando Antonio mi ha chiesto di consegnargli il mio cellulare, io non gliel’ho dato. Allora lui si è avventato su di me. Prima mi ha spinto, poi, siccome continuavo a tenere il telefono fuori dalla sua portata, mi ha preso per i capelli e mi ha trascinata vicino a lui. Io ridevo, ma lui era furioso. E gli è scappato un pugno. Si è fermato subito, appena ha visto il sangue scendere dalla mia bocca. In quell’istante è diventato più tenero e premuroso che mai. Era sinceramente pentito e si è scusato. Mi ha fatto capire che il mio era stato un pessimo scherzo e gli ho promesso che non giocherò più così pesante. Se non avessi messo in dubbio il suo amore, lui non avrebbe mai reagito in quel modo. Mi sono comportata come una vera stupida, ma ora so che per Antonio sono davvero molto importante. Me lo dice sempre: “Se mi lasci, ti uccido!”. Solo una persona molto innamorata può pensarla così.

Mi chiamo Mirko, ho trentotto anni e sono sposato con Lucrezia da quando avevamo tre anni. Nel parco giochi della scuola materna c’erano due anelli di latta, quelli che facilitano l’apertura delle bibite in lattina. Non c’erano testimoni, ma ci siamo promessi eterno amore, scambiandoci i cerchietti di metallo. Quel gesto ha segnato il nostro futuro: non sono più stato in grado di pensare a nessun’altra donna da allora. Siamo cresciuti insieme e insieme abbiamo condiviso le nostre vite. Non ci siamo più lasciati. Io ho studiato ingegneria all’estero per un paio d’anni, ma ci sentivamo in continuazione, mediante posta e internet. Mi sono sempre fidato di lei e lei di me. Sappiamo che i nostri cuori si appartengono: né il tempo né le distanze ci fanno paura. Otto anni fa ci siamo finalmente scambiati una vera fede nuziale nella chiesa del nostro paese natale, davanti ai nostri amici e ai nostri parenti. In seguito abbiamo avuto due splendidi bambini: Antonella, che compie sette anni il mese prossimo, e Davide, che ha due anni e mezzo. Siamo una famiglia unita e felice. Ovviamente le discussioni non mancano, soprattutto quando parliamo dell’educazione dei nostri figli. In quel caso si alza spesso la voce, ma poi tutto finisce con un abbraccio e il giorno dopo ci si ama di più. Non ho mai controllato il cellulare di mia moglie: non ho bisogno di rassicurazioni circa la sua fedeltà. Lei invece l’ha fatto, una volta, ma ancora oggi, ridendo, nega l’evidenza. Chissà cosa sperava – o non sperava – di trovare scritto lì dentro! Amo Lucrezia con tutto me stesso e, se improvvisamente decidesse di lasciarmi, la prima domanda che mi farei è “perché”? Non riesco a immaginare una vita senza di lei. Siamo così felici che mi sarebbe difficile comprendere, ma nonostante il dolore immenso che potrei provare, la stimo così profondamente che temo che alla fine la lascerei andare. I miei figli invece sono tutto ciò a cui non potrei mai rinunciare. Davide sta imparando a parlare e, ad ogni nuova frase che pronuncia, per noi è festa, tra risa e lacrime di commozione. Antonella è la donnina di casa, la mia principessa, l’unica a cui non so mai dire di no. Ieri pomeriggio mi ha convinto a portarla alla sua prima pigiamata tra amiche. Cenerà con loro e poi faranno dei giochi insieme, sempre sotto la supervisione dei genitori della padroncina di casa, ovvio. Alle 23.00 in punto andrò a prenderla, per riportarla nel suo lettino. È così emozionata che in queste due notti non ha chiuso occhio: ha paura di fare una figuraccia, addormentandosi prima del rientro a casa. È una bambina così dolce, ma devo prepararmi: la mia cucciola sta crescendo.

Sono le 22:50 e Antonio mi sta trascinando con forza sull’auto. Mi fa male il braccio, ma più cerco di divincolarmi e più lui stringe. Eravamo in un locale e stavamo bevendo un paio di cocktail. Lui si è assentato per andare al bagno e un ragazzo, credendo che fossi sola, mi si è avvicinato per offrirmi un altro drink. Gli ho subito risposto che ero accompagnata e allora lui gentilmente mi ha detto che doveva immaginarlo, perché una bella ragazza come me non poteva essere sola. Ho sorriso, perché un complimento fa sempre piacere, ma proprio in quel momento è tornato Antonio. Deve aver equivocato il mio atteggiamento cortese. Senza dare spiegazioni, ha steso con un pugno il ragazzo e poi ha dato uno schiaffo a me, facendo cadere il bicchiere che avevo tra le mani. Infine mi ha afferrata per un braccio e mi ha trascinata fuori, urlandomi addosso che sono una puttana, che non mi si può lasciare mai sola, che per colpa mia aveva fatto male a un ragazzo e che ora non avrebbe potuto più mettere piede in quel locale. I suoi occhi gridano collera e il fatto che sia ubriaco non aiuta. So che finirà come la prima volta che mi ha picchiato. So che mi farà male, ma poi tornerà il sereno tra di noi, come succede sempre. Sentirò dolore e domani dovrò inventare una scusa con la mia famiglia per coprire i lividi, ma è solo questione di tempo: presto tutto passerà. Mi sta scaraventando in auto. Ecco, è arrivato il momento. Mi preparo. Ma che fa? Non mi picchia? Mi sta fissando. Adesso sta mettendo in moto. Dove mi sta portando?

Sono le 22:50 ed è ora di mettersi in viaggio: Antonella mi sta aspettando. In auto non sono solo: con me ho dovuto portare anche Davide. Il mio piccolino si è svegliato piangendo e Lucrezia dormiva così profondamente che ho preferito non svegliarla. “Papi, io nanna te”, mi ha detto allungando le manine sul mio collo. Non è la prima volta che per farlo addormentare adotto la tecnica di caricarlo in auto di notte. Credo che i sobbalzi delle ruote sull’asfalto lo cullino meglio delle nostre braccia e in pochi istanti cederà al sonno. “Stai tranquillo e riposa”, gli ho sussurrato agganciando la cintura di sicurezza del seggiolino. Lo guardo nello specchietto retrovisore prima di partire. È un cucciolo meraviglioso. Dio solo può immaginare quanto lo ami! Antonella non si stupirà di vederlo, ma appena salirà in macchina lo riempirà di baci, come fa sempre quando lo vede dormire. Anche lei lo adora, ma lui non le permette di baciarlo quando è sveglio, così lei è costretta ad approfittarne quando la stanchezza gli annulla le difese. Li immagino da grandi: saranno due giovani forti e gentili e, quando avranno bisogno di un buon consiglio, io e mia moglie saremo pronti a dispensarglielo. Sono il senso della nostra vita e tra pochi minuti saremo ognuno nel nostro letto, sognando spensierati l’arrivo del nuovo giorno.

Antonio ha bevuto e sta guidando come un pazzo. Mi sta dicendo che non può vivere senza di me, ma che non può stare con una che ci prova con tutti. Avrei preferito che mi picchiasse. Non capisco quali siano le sue intenzioni, ma non posso parlare o si arrabbierà di più. Sto piangendo, perché non riesco nemmeno a discolparmi. Sono stata davvero una stupida a sorridere in quel modo. Non avrei dovuto nemmeno ascoltare la voce di quel ragazzo: a volte mi comporto come una vera ingenua. La furia che aveva negli occhi è diventata disperazione e disprezzo. Non vedo l’ora che tutto finisca: voglio solo tornare a casa. Davanti a noi c’è il cartello che indica l’autostrada e Antonio sta svoltando per imboccarla. Il fischio del telepass ha interrotto per un attimo la tensione che si è creata tra noi e trovo il coraggio di parlare. “Dove stiamo andando?” chiedo. Lui si volta a guardarmi, ma il suo sguardo mi terrorizza: mi sta sfidando. “Ti porto dove meriti: all’inferno!”. Oh, mio Dio! Che sta facendo? Quello è lo svincolo per chi esce, non per chi entra!!! “La stai prendendo al contrario, Antonio! Che fai? Così ci ammazzeremo!!!”. Di nuovo si volta verso di me, con fare gentile, come per rassicurarmi: “Solo così ti avrò per sempre e sarai solo mia!”.

L’autostrada è semideserta a quest’ora: in pochi minuti sarò da Antonella. Chissà quanto sarà felice! È la sua prima uscita serale con le sue amiche. Parlerà di questo pigiama party per mesi. Davide non sta ancora dormendo, ma vedo la sua testolina cadere nel vuoto di tanto in tanto, segno inequivocabile del fatto che sta cedendo. Tra le braccia stringe il suo pupazzetto preferito e sulla radio ho messo della musica classica per conciliargli il sonno. Guido piano, seguendo la corsia più a destra per non creare impiccio a chi sopraggiunge a velocità più sostenuta. Imbocco l’uscita. In lontananza mi sembra di vedere delle luci. Probabilmente stanno facendo dei lavori e… Questo è molto strano: le luci si avvicinano… Non è possibile! Sono i fari di un’auto, nella mia stessa corsia, in senso contrario. Sopraggiunge a velocità folle. Che sta succedendo? Lo sto abbagliando ma sembra che non abbia intenzione di fermarsi. Rallenta! Così mi verrai addosso! Rallenta! Ho mio figlio di due anni in auto! Fermati per l’amor di DIO!!!

“Sei pazzo! Fermati! Cazzo, fermati!!!”. Sto urlando disperatamente e all’improvviso le parole di chi mi aveva avvertita cominciano a prendere senso. Troppo geloso, troppo ossessivo… non è un rapporto sano… sei la sua mania… allontanati finché sei in tempo… lascialo… difenditi… fatti rispettare… se non vuoi farlo per te, fallo per la nostra amicizia, per il tuo futuro… Avverto lo schianto frontalmente. Qualcosa di ingombrante ha invaso lo spazio di fronte a me. Sento un forte peso sullo stomaco e il sapore del sangue nella bocca. La macchina gira su sé stessa e per una frazione di secondo il tempo rallenta e incrocio gli occhi spaesati di un bambino nell’altra automobile. Anche lui mi guarda, smarrito, e non posso fare a meno di sentirmi colpevole. L’auto gira ancora, una, due, forse tre volte. Fa rovesciare l’altra, che finisce contro il guard rail. Finalmente anche la nostra auto si ferma. Gli air bags sono esplosi e i vetri sono completamente in frantumi. Non sento dolore, ma non riesco a toccarmi. Un braccio è piegato in una posizione innaturale e l’altro… Oh, mio Dio! Dov’è il mio braccio? Nel buio vedo solo una macchia nera che si allarga su quello che è rimasto della mia camicetta. Ho freddo e ho tanta paura. Provo a muovermi, ma un pezzo di carrozzeria mi si è conficcato nello stomaco. Antonio ha perso conoscenza, ma improvvisamente di lui non m’importa più niente. Sto provando a urlare, ma qualcosa in gola m’impedisce di emettere suoni. Dall’altra auto non sopraggiungono rumori. Non so chi guidava, ma là dentro ho visto un bambino. Un bambino. Abbiamo ucciso un bambino! Che colpa poteva avere lui in tutta questa storia? Abbiamo spezzato la sua giovanissima esistenza e quella di tutte le persone che lo amavano e che resteranno in vita, a piangere la sua scomparsa per il resto dei loro giorni. Perché ci hai fatto questo, Antonio? Se volevi morire, potevi farlo da solo! Solo adesso me ne rendo conto: avevo tutto, prima che tu me lo portassi via. Adesso non mi rimane più niente, nemmeno la consolazione di abbandonare questo mondo avendo stima per me stessa, per quello che sono stata. La verità è che anch’io mi sento colpevole, perché anch’io, con la mia permissività nei tuoi confronti, ho ucciso quel bambino. Sento gli ultimi battiti farsi sempre più lenti e fiacchi nel petto e mi sembra di vederlo. La vita mi sta abbandonando, ma i suoi occhi smarriti durante l’impatto, che mi chiedevano di vivere ancora, rimangono fissi nei miei. Scusami cucciolo, perché solo adesso mi appare tutto più chiaro. Se ti avessi incontrato prima, sapendo quello che ci sarebbe capitato, mi sarei comportata molto diversamente. Se ti avessi conosciuto prima… Se solo avessi saputo… Che peccato che non ci sia concesso di conoscere il futuro: se potessi tornare indietro, non mi lascerei più né picchiare né umiliare. Perdonami se puoi, perché solo adesso mi rendo conto che tutto questo si poteva evitare. Ti supplico, assolvimi piccolo! Scusami, mamma! Scusami, Anna! Avrei dovuto ascoltarvi! Come ho fatto a restare sorda al peso delle vostre parole? La violenza è un tornado che si abbatte sulla mischia, perché non sa contenere la sua forza distruttiva. Miete le sue vittime in preda a una furia cieca e la conta dei danni comprende il dolore di molte persone. È inutile giustificare gli insulti e coprire i lividi, prima o poi sconfinerà. Soltanto adesso capisco. Così tu, piccolo martire innocente, se avessi potuto parlare, anche tu mi avresti supplicato di guardare in faccia alla realtà. Anche tu ti saresti unito al coro. Anche tu, come tutti, mi avresti urlato forte: “Fallo per me!”. Ormai è tardi: il destino si è compiuto. Mi sento più debole a ogni attimo: la forza mi sta abbandonando. In lontananza sento il suono delle sirene. Qualcuno sta parlando, ma lo ascolto a fatica: “Morirà anche lei, come gli altri. È intrappolata nelle lamiere. Non ce la farà!”. I battiti si smorzano. Il freddo aumenta. Chiudo gli occhi. La mia vita finisce a diciannove anni, per colpa di un pazzo che mi amava al punto di ammazzarmi.

E poi sei arrivata tu…

Il dolore di un pizzicotto nelle viscere mi sveglia nel cuore della notte. Lo sento ripetersi a ritmo continuo e crescente.

Apro gli occhi.

Mi sembra di non sentirlo più e mi sistemo il cuscino tra le ginocchia. Non faccio a tempo a richiudere le palpebre ed eccolo: si ripresenta.

Alzo un braccio per prendere il cellulare sul comodino.

Non ho mai portato l’orologio al polso perché lo trovo scomodo. Inoltre, quando si vive in una società tecnologica come la nostra, ci sono mille modi per conoscere l’ora…

Mezzanotte e zero due del quattro ottobre.

Non può essere! Sta accadendo davvero!

Comincio a contare le pause tra un dolore e l’altro. Arrivo a malapena a venti e ripartono.

Calma! Respira profondamente e rilassati!

Istintivamente mi porto le mani sulla pancia, così grossa che sembra possa esplodere da un momento all’altro. Il ginecologo mi aveva dato proprio questa data come termine della gravidanza. Mai avrei creduto che poteva azzeccarci!

Improvvisamente mi assale il panico.

Oddio! Come suo padre! Un’altra maniaca della puntualità!

Riprendo il cellulare e inserisco il timer.

Le contrazioni sono vicinissime, meno di trenta secondi l’una dall’altra.

C’è una cosa che mi lascia perplessa: il fatto che sono vagamente dolorose, mentre le immaginavo al limite della sopportazione umana. Alla mente mi riaffiora il ricordo di una discussione con una mia amica che sosteneva di non aver sofferto durante il parto. “Poco più potente delle mestruazioni”, mi aveva assicurato sorridendo. Titubante avevo deciso di non crederle, giusto per scaramanzia: se mi preparavo al peggio sarebbe stato più facile accettare il meglio. Certo che se le doglie avevano quell’intensità era davvero inconcepibile che nei film presentassero il parto con tutti quegli urli.

La rapidità del loro ripetersi inizia ad essere troppo ravvicinata.

È il caso di prepararsi.

“Amore! Amo, credo che ci siamo!”.

Scuoto leggermente l’avambraccio di Bernardo che, sbuffando con gli occhi ancora chiusi, mi risponde con un filo di voce: “Ci siamo a far che?”.

A scalare l’Everest! Ma ti sembra?

“Indovina”, sibilo a denti stretti sarcastica.

“Allora me lo dici domani”.

Non ci sono dubbi sul perché la gravidanza sia stata affidata al genere femminile.

“Se vuoi partorisco qui!”.

Improvvisamente le sue palpebre provano a spalancarsi senza riuscirci.

“Ah! Quindi intendi dire che…”

Ma vah!

É vero che i miei ormoni mi stanno rendendo intollerante e vagamente stronza, però non ho mai svegliato qualcuno senza motivo. Per l’intera gestazione non ho mai avuto “le voglie”, tranne quando me le inventavo, giusto per viziarmi un po’. Soprattutto, ho sempre sonnecchiato alla grande, quindi la notte avevo altro da fare che chiedere angurie, gelato e cioccolato: decisamente meglio dormire!

Lentamente ci alziamo dal letto per prepararci. Non siamo sovraeccitati come mi sarei aspettata, invece con tranquillità iniziamo i preparativi a lungo pensati.

Mentre entro in doccia la mia mente mi riporta con piacere al primo giorno di questo lungo viaggio.

Era gennaio e in casa avevo ancora degli stick ovulatori che avevo comprato su internet, per testare la dinamica dei miei cicli perennemente irregolari. Come sempre avevo un ritardo, ma, nonostante non fosse una novità, avevo deciso di provare a bagnare uno stick, spinta dalla curiosità. Ancora oggi mi chiedo perché, visto che non avevo motivo di credere di essere rimasta incinta. Penso che a volte l’istinto ci porti a fare cose irrazionali che alla fine si rivelano sensate. Non ho mai creduto nel destino, in qualcosa di già precedentemente pianificato da una qualche entità ultraterrena. Se esiste un Dio, se ne sta beato e spensierato a godersi lo spettacolo del suo creato! Credo piuttosto in una forza interiore, che ciascuno di noi possiede e che si manifesta in azioni e pensieri apparentemente sospinti dal nulla, ma finalizzati a renderci palese qualcosa di cui, in verità, il nostro inconscio è già consapevole. Guardando l’esito di quella prova, anche se non si trattava di un vero e proprio test di gravidanza, compresi immediatamente: il rosso della strisciolina laterale, colorata dagli ormoni presenti nelle mie urine, era troppo evidente. Il problema era che, neanche scegliendolo, sarei stata in grado di azzeccare un momento meno opportuno. Avevo appena accettato un lavoro importante che, date le circostanze, ora avrei dovuto rifiutare. Mio marito era fuori città per lavoro e, soprattutto, il ginecologo mi aveva assolutamente vietato di rimanere incinta! In due anni avevo già abortito due volte e, con un tempismo perfetto, per la settimana successiva avevo fissato il primo incontro con uno specialista in materia. Rimanere incinta adesso significava trovarsi di fronte al terzo appuntamento con un raschiamento quasi certo! Mi trovavo in una situazione troppo incomoda e c’era solo una persona a cui dovevo assolutamente dirlo: Bernardo.

“Pronto, amo, ho combinato un disastro”, fu l’incipit della mia telefonata.

“Hai rotto la macchina?”.

Perché un uomo pensa sempre che il dramma più tragico della vita riguardi un danno all’automobile?

“No, molto peggio”, risposi soffocando un singhiozzo.

“Non farmi gli indovinelli. Cosa è successo?”.

“Sono incinta”, risposi con un filo di voce che a malapena io ero riuscita a sentire.

“Puoi parlare con un tono più alto per favore?”, replicò lui.

“Sono incintaaaa!”, riuscii a dire tutto d’un fiato.

“No, dai, seriamente, dimmi cos’è successo davvero…”

La sua voce mi riporta alla realtà.

“Allora? Sembrava che dovessi partorire in un secondo e invece sei ancora sotto la doccia?”.

Questa volta non posso dargli tutti i torti.

La verità è che mi sto preparando per il giorno più particolare di tutta la mia vita e voglio farlo lasciandomi trasportare dalle emozioni: per una volta, oggi sarò libera da tutte le inibizioni.

“Sono pronta”, gli dico, mentre prendo la borsa che con cura ho preparato almeno due settimane prima. Dentro c’è tutto il necessario per affrontare la degenza e il parto. Con un rapido sguardo saluto la mia casa e la mia Yorky, con la promessa che tornerò presto.

Il viaggio fila liscio, con dolori che di tanto in tanto mi fanno sobbalzare sul sedile, senza però mai oltrepassare la soglia della tollerabilità.

“Signora, è dilatata solo di un centimetro. Stia tranquilla, torni a dormire e ci vediamo domani mattina”.

Il ginecologo di turno all’ospedale mi dilegua così dopo una breve visita.

Dormire? E chi può dormire adesso?

Speravo di risolvere velocemente la cosa, ma non è ancora giunto il momento.

La pancia negli ultimi giorni è diventata insopportabilmente pesante e anche il semplice camminare mi viene difficile. Mi sento orrendamente goffa e mi sembra di poter cadere a terra a ogni passo. Quando la bambina si gira sento i suoi arti che si allungano e si piegano internamente contro i miei organi. Non è una sensazione piacevole, soprattutto quando si appoggia sul nervo sciatico. La immagino dentro di me, con un faccino da diavoletta, mentre mi mostra l’indice alzato minacciosa, avvisandomi delle sue malefiche intenzioni. Poi, sogghignando, mette il ditino sul nervo e gioca a farmi rimanere senza fiato, pizzicandolo come fosse la corda di uno strumento musicale.

Rincasiamo con un’accoglienza calorosa di Yorky, che abbaia e corre in circolo a tutta velocità. Credo sia contenta di non vederci in compagnia della piccola estranea.

“Prima o poi dovrai farci l’abitudine, Yorky”, le dico mentre mi accascio sul divano. Non posso fingere di non sentire le contrazioni che stanno diventando sempre più forti.

Sono le due del mattino e devo presentarmi in ospedale alle nove.

Nonostante abbia sonno, non riesco a dormire, a causa del dolore e per via dell’eccitazione che, poco a poco, sta aprendo una breccia nel mio profondo. Non mi resta che provare a sdraiarmi qui, chiudere gli occhi e rilassarmi.

Il primo trimestre è stato il più difficile.

La cosa più ridicola fu quando avvisai il ginecologo della scoperta.

“Pronto, dottore? Si ricorda quando mi aveva detto che non dovevo assolutamente rimanere incinta in questo momento? Ehm, sì, ecco… Non so come sia successo…”.

E lui, dall’altra parte del telefono, serio: “Se vuole le faccio un disegnino!”.

Solo a me poteva capitare un ginecologo così!

In seguito, la paura di perdere il feto fu davvero molta. Ogni piccolo dolore era motivo di panico: ogni volta la corsa in bagno alla ricerca di tracce di sangue sugli slip e, ogni volta, la fortunata sorpresa di non vederne nemmeno l’ombra. La cosa peggiore era la stanchezza, il continuo e frustrante senso di spossatezza. Odio perdere il controllo e questo è il motivo per cui non mi sono mai concessa una sbronza. Sentirsi perennemente persa nel vuoto, incapace di pensare perché troppo stanca per farlo, mi dava quasi ai nervi. Così, io che generalmente ho una pazienza proverbiale, mi alteravo per il più futile dei motivi. La mia sensibilità all’olfatto si accentuò a dismisura. Su una rivista avevo letto che i cani, quando per strada si fermano e annusano a lungo un centimetro di terreno, lo fanno perché stanno elaborando un insieme di informazioni che comprendono proprio per mezzo del loro naso, come se stessero leggendo un giornale. Beh, se avessi avuto il coraggio di mettermi a quattro zampe per strada col mento all’ingiù come Yorky, posso assicurare che anch’io avrei “letto il giornale”. Anche le nausee mi hanno fatto compagnia a lungo ma, malgrado la sensazione di avere lo stomaco chiuso, sono riuscita ad aumentare la bellezza di diciotto chili!

Chissà quanto tempo ci impiegherò per tornare in forma!

Io che ho sempre curato il mio aspetto fisico con diete salutistiche e tanto sport, accetto con difficoltà questa mia orrenda trasformazione. È il primo grande sacrificio che richiede la maternità.

Il passaggio al secondo trimestre è stato una rivelazione, un netto ribaltamento di stato. Da un giorno all’altro decisi che avevo voglia di rinnovamento e iniziai a dedicarmi alla ritinteggiatura di casa. Con la pancia che iniziava a esplodere sotto i vestiti, pitturai prima la camera matrimoniale, poi l’ufficio e infine la cameretta. Nel frattempo avevo avuto conferma che nel mio grembo ospitavo una bambina, quindi potevo decidere di colorare ogni spazio di rosa ma, visto che potevo incappare in qualche errore di lettura delle ecografie, decisi di farla azzurra, come il cielo. Qua e là nel soffitto ci ho disegnato delle nuvole, soprattutto sopra i mobili, dove il pennello non riusciva ad arrivare. Ho ridisegnato il lampadario con della plastica giallo-fluorescente a forma di raggi, per rendere l’idea di un sole, e ho cosparso una parte della camera di stelle luminescenti che si rivelano al buio. Poi, per augurarle il buongiorno ad ogni risveglio, su una parete ho scritto a caratteri cubitali It’s a beautiful day. Giocare con le tempere e i colori mi ricaricava di un’incredibile vitalità. Mentre pitturavo, a mente ripassavo l’inventario delle cose da comprare in vista del suo arrivo. La mia fortuna è che molte delle mie amiche avevano da poco vissuto quest’esperienza e avevano molti consigli da dispensarmi. Non ne ho trascurato nemmeno uno!

All’inizio, l’idea di avere il pancione era piacevole, ma come fine a sé stesso.

La consapevolezza che sarei diventata mamma è arrivata quasi al traguardo.

Con essa le prime preoccupazioni, anche le più banali.

Non ho la più pallida idea di come si cambi un pannolino e mi chiedo come capirò dai suoi pianti di cosa avrà bisogno.

Il solo fatto di prendere in braccio un neonato mi mette a disagio con quella testolina instabile che ‘sballonzola’ priva di sostegno. Mi sento inadeguata oltre che impreparata. Quando ho confessato apertamente queste cose, chiunque ha cercato di rassicurami dicendomi: “Vedrai, ti verrà naturale”. Ma se così non fosse?

“Svegliati, amore. Dobbiamo andare!”.

Bernardo mi bacia dolcemente su una guancia, mentre realizzo con stupore di essermi addormentata mio malgrado. I crampi, che avvertivo questa notte, sono ancora lì e, a dire il vero, anche la loro intensità. Forse nemmeno questa volta accetteranno di trattenermi in ospedale.

“Se non sbaglio lei aveva fissato per oggi il monitoraggio perché è a termine”, mi suggerisce l’infermiera che mi accoglie al reparto maternità. “Bene, si accomodi su quel letto e si sollevi la maglia fino al reggiseno”.

Mi mette una fascia e uno strano strumento sulla pancia, credo un rilevatore del battito della bambina. Poi lo aggancia a una macchina e se ne va.

Mentre ascolto il ritmo cadenzato del suo cuore, sonnecchio pensando a me stessa con la piccola in braccio.

Non riesco a immaginare di amare questa bambina più di quanto già non lo faccia ora. È arrivata quando meno me lo aspettavo, desiderata sì, ma insperata.

Dovrò iniziare da subito a dettare delle regole, in modo che cresca con una certa educazione! Questo non significa che eviterò che commetta degli sbagli: dagli errori si impara a rialzarsi e a non compierli più. Le dirò poche volte no, ma quando lo farò sarò determinata e decisa, così che impari da subito a comprendere il divario tra bene e male. Le insegnerò ad amare, a essere ambiziosa ma ad aver rispetto dei più deboli; a essere gentile, ma anche forte e tenace per poter inseguire e realizzare i suoi sogni.

Nel frattempo entra un altro dottore, diverso da quello della notte.

Il suono del battito cardiaco della piccolina viene distorto dalla macchina e, di tanto in tanto, interrompe il suo galoppo sfrenato soffocando a poco a poco nel silenzio più totale. Poi riprende la sua corsa, concedendosi ancora una sosta.

Il ginecologo si avvicina e muove il rilevatore. Guarda il tracciato che emette la macchina e mi guarda, incupendosi.

“C’è qualcosa che non va”.

Cerca il sostegno di un’infermiera, che a sua volta guarda il tracciato.

Per la prima volta, ho davvero paura.

Anche il mio cuore ha smesso di battere e sento di impallidire vistosamente.

Lei è viva, sento i suoi battiti, quindi è viva. È malata? Perché questi due si sono appartati a parlare e mi guardano con fare sospetto?

“Sembra che la bambina sia in leggera sofferenza. Devo visitarla d’urgenza”.

Non riesco più a pensare. Non emetto suono. Sono una marionetta nelle mani dell’uomo che ho di fronte ed eseguo tutti gli ordini che mi impartisce.

“Non ha più liquido amniotico, signora. Suo figlio deve per forza nascere oggi!”.

Non capisco se mi sta minacciando o se mi sta dando una buona notizia.

Credo che la sua intenzione sia quella di cercare di mettermi a mio agio, ma quel c’è qualcosa che non va continua a ronzarmi nelle orecchie, impedendomi di sentire altro. “A proposito, femmina o maschio?”, continua per cercare di smorzare la tensione. “Femmina”, rispondo meccanicamente.

Me l’avranno chiesto centinaia di volte in questi mesi! Perfino dei perfetti sconosciuti mi hanno fatto questa domanda, accarezzandomi la pancia senza nemmeno chiedermi il consenso.

“E come ha deciso di chiamarla?”.

Anche questa è una domanda che mi hanno posto un milione di volte.

Il problema è che non esiste un nome adeguato a qualcosa di così grande. Vorrei un nome raro, quasi unico, che abbia un significato per me, per noi. Bernardo vorrebbe chiamarla Azzurra, ma a me non convince. Non capisco il senso di chiamarla con il nome di un colore: non è nemmeno il nostro preferito…

“Non è ancora deciso. Spero di avere un’illuminazione quando la vedrò”.

“Non le rimane molto tempo, comunque… Adesso le metterò del gel che indurrà le contrazioni e, nel giro di qualche ora, dovrà partorire sia la bambina sia il suo nome!”. Abbozzo un sorriso.

Cavolo! Questa sì che è una minaccia!

Quindi i dolori che ho da stanotte non sono le vere contrazioni?

Sapevo che dovevo aspettarmi il peggio!

Un’infermiera mi accompagna in sala parto e, dopo poco, mi raggiunge Bernardo.

La stanza ha una vasca, un lettino e c’è anche un grande pallone bianco su cui è possibile sedersi per facilitare i movimenti circolari del bacino.

Un’altra operatrice sanitaria mi si avvicina e si presenta come la mia ostetrica, nonché la persona che mi accompagnerà al parto.

Passano pochi attimi e le contrazioni cominciano a diventare acute.

Dapprima una smorfia di dolore mentre sono sdraiata, poi un sollevamento sul fianco, infine la decisione che è meglio provare a restare in piedi.

Improvvisamente sento qualcuno che mi morde i fianchi e i reni da dentro.

Un brivido mi percorre la schiena e mi aggrappo alla sbarra del letto.

“Prova a dondolare sui fianchi: il dolore si attenua così”, mi dice l’ostetrica. Fortunatamente il male mi morde la lingua.

Provaci tu stronza! Hai idea di quello che mi stai chiedendo? Ma vaffa…

Oh mio Dio! Ecco perché tutti quegli urli nei film! Altro che preparata al peggio: il peggio qui non ha fine!

Guardo la macchina che sta rilevando l’intensità delle doglie. Quando si innalza compie dei picchi che il foglio non riesce nemmeno a immortalare. Ed è proprio in quegli istanti che la sbarra del letto trema insieme a me, ormai in preda alle convulsioni.

Non riesco a fare a meno di urlare, è più forte di me. Tremo e urlo.

Il ginecologo mi fa sdraiare per provare il mio stato di dilatazione.

Non mi accorgo nemmeno di come arrivo sul lettino.

A malapena sento che mi sussurra dolcemente: “Non è abbastanza dilatata e la bambina è in sofferenza. Dobbiamo procedere col cesareo”.

Forse mi sento sollevata, o forse devo preoccuparmi ancora di più, ma il dolore è troppo forte.

Fatemi quello che volete, ma toglietemela da lì dentro!

Vedo lo sguardo preoccupato dell’ostetrica, mentre dice alla collega che bisogna intervenire con la massima urgenza.

Provo a costringermi a restare ferma, quando mi aiutano a salire sulla lettiga che mi condurrà nell’altra sala. Non m’importa di essere nuda, né di perdere sangue. Voglio solo che tutto finisca al più presto.

Quando m’impongono di sedermi per iniettarmi l’anestesia, devono tenermi in tre per evitare che la siringa si conficchi in distretti non idonei, perché le contrazioni mi colgono di sorpresa con un’intensità inaccettabile, che il mio corpo non riesce né a controllare né a sopportare.

Stanno agendo tutti con estrema fretta.

Muovo ancora le gambe, quando il bisturi si conficca nella mia carne.

Urlo perché ho sentito il taglio dell’incisione. Poi la lama diventa uno sfioramento leggero e freddo sulla pelle.

Il dolore è sparito.

Un senso improvviso di svuotamento e la tensione del mio ventre si affievolisce.

Vedo il suo corpicino passare velocemente nelle mani dell’ostetrica.

Inizio a piangere, tra la commozione, la tensione, l’ansia.

“Perché non piange?”, urlo, mentre la cerco con lo sguardo, inclinando il capo all’indietro, verso la culla termica.

“Davvero non la sente? Sta buttando giù l’ospedale!”, mi dice l’ostetrica, sorridendo amabilmente.

Poi la sento. È vero: sta piangendo!

Le lacrime mi rigano le guance senza che possa trattenerle.

Singhiozzo come lei: madre e figlia unite in un solo pianto.

“Voglio vederla! Fatemela vedere, vi prego!”.

Commossa, l’ostetrica mi guarda e poi prende il fagottino che tiene tra le mani, scoprendole il viso. Ha gli occhi aperti e mi osserva.

Il cuore mi sobbalza nel petto. È amore a prima vista: amore puro, folle, illimitato. Possono evitare di metterle il bracciale: riconoscerei quegli occhi tra mille.

Non posso accarezzarla, perché ho le braccia legate al lettino, ma è bastato l’incrocio dei nostri sguardi a calmarci reciprocamente.

Mi sembra di non aver mai vissuto fino ad ora.

In quest’istante il mondo che avevo conosciuto ha cessato di esistere.

È l’alba di nuove vite: la sua, da poco venuta al mondo e la mia, che scopro per la prima volta cosa significa Amare.

Non ho più dubbi.

Mentre la conducono nella sala accanto, mi rivolgo al ginecologo, assorto a ricucirmi la ferita.

“Ho una figlia!”, esclamo orgogliosa.

Lui sposta momentaneamente l’attenzione sul mio volto, scrutandomi.

Non gli lascio il tempo di pormi la domanda e lo anticipo.

“Ho deciso: si chiamerà Aurora”.

LO zio.

“Ti fermi a cena da noi, Zio?”.

La tua figura filiforme, composta e ordinata si ferma sulla soglia di casa dei miei. Da dietro lenti spesse, che rendono i tuoi occhi scuri più grandi, mi fissi, poi pieghi la testa di lato e fai cenno di no, riempiendo il sotto-mento di doppie pieghe.

“No, grazie. La sera preferiamo stare leggeri. Io mangerei solo una minestrina”.

Usi il plurale nella risposta, perché non puoi fare a meno di prendere decisioni che coinvolgano anche lei, la dolce donna che ti accompagna da sempre, mia zia. Tra di voi c’è un legame intenso, palpabile, l’amore di una vita. Ora la stai guardando, per chiederle conferma, e tra qualche istante cederete entrambi alle nostre lusinghe. Allargheremo la tavola, aggiungeremo dei posti e la cena si trasformerà allegramente, perché voi siete parte della nostra famiglia, nel senso più intrinseco, autentico e sentito. Siete la ciliegina sulla torta della domenica e tutta la mia famiglia aspetta con ansia il suono del campanello che preannuncia il vostro arrivo. Mentre ti passo l’acqua, dici qualcosa e trascini nella pronuncia un debole accento milanese. Te lo faccio notare.

“Ah, Milan! L’è semper en gran Milan”, lo dici illuminandoti e ricordando i vecchi tempi, quando tu e la zia abitavate e lavoravate là. È piacevole discorrere con te, perché sei ricco di interessi, una buona parlantina e quel modo discreto di non eccedere mai, di non insultare nessuno. Elegante ma riservato, a dispetto del tuo nome (Severino) hai sempre un sorriso rassicurante per tutti.

Col tempo i tuoi folti capelli hanno iniziato a tingersi di sfumature bianche sempre più evidenti, ma, sotto la giacca o il maglione, rare volte ti ho visto dimenticare la cravatta.

Io ho inseguito la mia felicità, mi sono sposata e poi trasferita in città e paesi diversi, più volte.

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Non sei mai mancato nei momenti importanti della mia vita. Quando ti ho chiamato o fatto visita mi hai accolta con gioia, anche se era passato molto tempo. Non hai mai preteso scuse, non hai mai indugiato cercando di addossarmi colpe per la mia assenza. Rivedermi, sentirmi e sapermi serena erano le sole cose che contassero. Perché tu eri fatto così: non sprecavi il tuo tempo ad affannarti dietro inutili arrabbiature. Amavi la vita, la festa, i viaggi. Eri ben voluto da tutti, in prima linea nel dare una mano agli altri. Un uomo d’altri tempi, con una levatura morale e una dignità che solo chi ha un trascorso di sacrifici può possedere. Amavi la tua famiglia, i tuoi nipoti, i tuoi figli e, al primo posto, sempre lei, la compagna della tua vita, tua moglie.

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La zia e lo zio di Erbusco. La zia e lo zio. LO zio che oggi non c’è più.

“Ti fermi a cena da noi, zio?”.

Silenzio.

E un vuoto incolmabile lacera il cuore di chi hai lasciato.

 

Covid19 times – translated by Giulio Panza

I barely open my eyes, even though I slept well. It has not happened for years. Worries are intensifying, and a mood swing befriends me during the nap. I am troubled. I have been waking up for weeks without my shrill and steady alarm. In weekdays it is like if a biological alarm made my eyes open, for a simple sense of duty, just in time to start working at home, smart working. I am one of the few lucky people who can treat themselves, lucky enough to plan on a wage, a low wage, because I have a part-time contract.

Businesses are exhaust and most of them will face failures and closures, once corona virus emergency is up to its end. Few days ago, my husband was told his company is downsizing. He is in that category of those disadvantaged people in the Italian economic system: he is a freelancer with a VAT number  and he will be lucky, only if his insurance fund will give him a small amount of 600, 00 € for March, that’s anyway not granted! Only a scarce number of people will enjoy that small amount, basing on the chronological order, they gave the request in, despite the delays and the errors of a congested web site. Perhaps this is the reason why my sleep is always more shaken.

Today it’s my birthday, and I am figuring out that time flows, regardless of our habits, that are waiting for a recovery.

Time.

How worthy is this word? It is the first time we do find ourselves between what we were and what we will be. We have never enhanced the worth of such a word, but now. Time qualifies our life.

I live on the border between the two areas, that are suffering the most a spreading pandemic. Covid-19 is erasing an entire generation of grandparents. But the truth is far from this: it’s stealing us time for sorrow, the possibility of a last goodbye, it made us inept bystanders to what’s inevitable. 20 minutes far from here dozens of military vehicles are transporting in other areas graveyards the corpses of our victims. For the news they are numbers, but each of them is a relative or a friend of someone who meant everything to someone else. Their personal belongings have been sanitized, soundlessly thrown in black duffels, and only after these two steps delivered to their family. Nothing else to weep for our loved ones. No deserving ceremony for those who sacrificed themselves, just to leave a better and wealthier world for their children. Perhaps, this world runs too fast, but it was a matter of habits, the same habits that will not belong anymore to us, at least in a short time.

I get up clouded by my thoughts. In the kitchen my daughter rolls out on the floor papers saying, “Happy Birthday Mum”, while an enormous silver 43 is covering the upper part of the wall. These days are surreal for her too, but children quickly adapt to new habits. For them home is where there are their parents and, in this place, they can spend time altogether for long. It is a dream that comes true. Of course, she misses open spaces to run over, a garden to lay on and her play and school mates. Even the school adapted to abrupt changes and classes are online. No one would have imagined it before.

When the first infection was announced in the news, we were not ready. We avoid fear, believing it was silly, but then the speed of the virus spreading caught us. At now hospital are collapsing and the emergency turned to planetary. I am worried about future, and no one knows when quarantine is going to end. Today I am happy, tomorrow euphoric, the day next angry. Closed people died due to the virus, but neither their relatives nor I have undergone the swab. This has made me anxious and for days I have been afraid of being ill or infecting someone else. On the one hand, people are posting words of hate on social networks, in particular against runners. It seems an absurd hunting to the “plague spreaders”. Actually, they only spread fake news or conspiracy theories. Probably, this is the real hunting… to a “share” or a “like”. It doesn’t help, anyway, because more free time means spending more of it online, letting negative emotions involve us.

But today, it’s my birthday and I am not going to let sadness win. I am going to dance with my daughter and my husband on the terrace under a warm spring sun. Then, I am going to taste some sea food dishes, delivered by an excellent deli. I will receive many wishes. I can already feel all those virtual hugs. This birthday will be particular, not sad. Because until I am alive, I have chances. It doesn’t mind, if it is at home, or far away around the world. I don’t fear challenges, I am scared of violence. However, united but distant, humanity will succeed in it. We will succeed in it. Together.

insieme

Maria

Quando penso che non ci sei più, mi sembra di soffocare.

Per quasi due anni abbiamo condiviso le ore del mattino, la mia scrivania di fronte alla tua.

Ingombrante, non solo per la mole robusta del tuo fisico, ma anche per via del tuo carattere vigoroso e ostinato, a 70 anni suonati avevi la curiosità di uno studente alle prime armi e quella stramaledetta caparbietà di voler farcela da sola.

“Sto cazzo di computer”, era la frase che ripetevi più spesso, convinta che quella macchina infernale cospirasse alle tue spalle e cancellasse da sola cartelle, files, appunti e siti di navigazione.

Ma tu non mollavi mai, sempre aggiornata sulle nuove tendenze della tecnologia, sempre un passo avanti rispetto a quello che ci si aspetta dai tuoi coetanei.

“Mi sarebbe tanto piaciuto fare l’avvocato”, mi dicevi spesso.

Era un amore viscerale per la giurisprudenza quello che ti attanagliava dentro, ma forse anche la voglia di rivincita, per una vita che non ti ha concesso molte vittorie, ma una valanga continua di lotte.

Hai conosciuto il sapore amaro della sconfitta, l’asprezza della delusione e la frustrazione della sopportazione, ma hai sempre conservato il tuo spirito possente.

Negli anni del maschilismo imprenditoriale, hai tenuto testa ai tuoi pari, puntando i piedi e sbattendo i pugni.

Fragile quanto cocciuta, ti ho vista spesso piangere.

Dicevi di essere stanca del lavoro, che avevi bisogno di più comprensione e, un attimo dopo, con voce ferma ti attaccavi al telefono per sollecitare il pagamento delle fatture arretrate.

Maria 1

E poi la tua passione per la manualità, per la pittura e l’arte in genere…

Artista nell’animo. Lavoratrice per diletto.

Chi ti conosceva bene ti definiva una vera regina di cuori: forte, tenace, battagliera.

Amavi la tranquillità del lago, la socialità, la buona compagnia.

Maria 3

Mi risuona nelle orecchie la tua voce l’ultima volta che ti ho sentita: “Ho la febbre, Betty. Io non ce l’ho mai. Ho paura perché con i miei problemi…”

Ci ho pensato. Sapevo che avevi ragione, ma non lo credevo davvero. O forse semplicemente non lo speravo. Maria è andata via leggera, quasi in punta di piedi, senza far rumore. Lei che aveva un timbro deciso e graffiante, lei che non potevi non notare nemmeno se lo volevi.

Dopo giorni di febbre insistente e forti mal di testa, il suo unico pensiero era quello di non disturbare il medico e l’ambulanza, perché, anche se stava male, quelli erano giorni di festa e in quel momento c’era gente conciata peggio di lei.

Maria non ha avuto un funerale per dire addio alle tante persone che la conoscevano.

Maria è morta di Covid19, una delle tante vittime di questa temibile pandemia, soprattutto nel nostro territorio.

Maria continuerà a vivere nei miei ricordi e nei ricordi di chi le ha voluto bene.

Maria che lascia in disordine i documenti, Maria che mi trattiene sulla porta dell’ufficio a chiacchierare, Maria che ride per la mancanza di competenza del governo, Maria che si commuove quando parla di sua figlia, Maria che ha il cuore in frantumi per un’attività fallita, Maria che sogna di iscriversi all’università della terza età, Maria che vuole imparare a usare Instagram e il programma di contabilità, Maria che va al corso di pittura e si iscrive a inglese, Maria che mi dice ammirata ‘sei brava!’, Maria che si mette a dieta per l’ennesima volta, Maria che non vede l’ora di godersi la tranquillità della sua casa a Monte Isola, Maria che mi prende in giro perché non so usare la calcolatrice…

Maria.

Che non può e non sarà mai solo un numero…

MAria 2