Archive for Per il gusto di leggere

Fallo per me

Mi chiamo Claudia, ho diciannove anni e sono innamorata. Antonio ha undici anni più di me ed è incredibilmente figo. Tutte le mie coetanee mi invidiano, ma io sono sicura che lui ami solo me. Fra noi l’amore è nato con un colpo di fulmine e per dimostrarmi la sua lealtà, una settimana dopo che ci siamo conosciuti, si è fatto tatuare il mio nome sul braccio. “Così tutti sapranno che mi appartieni”, mi ha detto. Mi telefona spesso. Si arrabbia se non gli rispondo: ha troppa paura di perdermi. Una sera sono scesa in taverna a guardare un film e ho dimenticato il cellulare in camera. Mi sono addormentata proprio nell’istante in cui avrei dovuto rispondere alla sua chiamata. È così innamorato di me che ha pensato che lo volessi lasciare e si è precipitato a casa mia. Stava praticamente sfondando la porta, quando mio padre gli ha aperto. Ha creduto al fatto che fossi al piano di sotto, solo quando mi ha visto. Il mio dolce amore era così spaventato che per poco non mi ha stritolato tra le sue braccia. Un’altra volta ho sentito lo squillo del telefono in ritardo, perché ero sotto la doccia. Quando ho risposto, mi ha coperta di insulti, ma non mi sono offesa, perché so che le sue parole erano dettate dalla preoccupazione. Le sue continue attenzioni mi lusingano. Quando usciamo, vuole che mi copra bene. È geloso: mi vuole solo per sé. Facciamo l’amore tutti i giorni, anche più volte al giorno. Non posso dirgli di no. Se lo faccio, mi accusa di non amarlo più. Io invece voglio che sappia che gli sarò fedele fino alla morte. Per questo lascio che lui giochi col mio corpo, anche quando sono stanca o non lo desidero. Un paio di settimane fa ho parlato di lui a mia madre. Sostiene di essere un po’ preoccupata, perché da quando sto con lui, non esco più con le mie amiche e ha paura che la possessività di Antonio nei miei confronti prima o poi mi si ritorca contro. “Sei ancora molto giovane, puoi trovare centinaia di ragazzi migliori di lui. Non devi fare la schiava di nessuno, nemmeno del tuo uomo. Che tu non voglia lasciarlo perché non piace a me, è comprensibile, ma devi pensare a te stessa e al tuo futuro. Se non vuoi farlo per me, fallo per te: salvati fin che sei in tempo!”. Ho provato a spiegarle che la sua gelosia è motivata dal fatto che mi ama follemente, ma lei non riesce a capire. Ragiona proprio come quelle sceme delle mie amiche. Sono così invidiose della mia storia d’amore che mi hanno fatto un discorso molto simile. Anna, la mia ex – migliore amica, mi ha perfino chiesto di scegliere fra lei e Antonio. “Ci ha tolto ogni spazio che avevamo, non vuole nemmeno che tu venga a casa mia per un tè. Sei la sua fissazione, la sua mania. Io non credo che il vostro sia un rapporto sano. Non pretendo che lo lasci, ma che t’imponga, esigendo qualche attimo per te stessa e per le tue amiche. Se non vuoi farlo per te, fallo per noi, fallo per me!”. Non credevo potesse essere così superficiale: non ha capito che il nostro è amore vero e che non possiamo fare a meno di stare sempre insieme. Come può pretendere che scelga lei invece dell’amore della mia vita? Antonio è tutto quello che ho sempre sognato: un uomo d’onore, con principi forti, basati sulla fedeltà e sulla lealtà. Non mi importa se dovrò lottare contro tutto e contro tutti per stare con lui. Anche mia sorella mi ha messo in guardia sugli uomini gelosi, ma lei la posso capire. Si è da poco separata dal marito, perché la picchiava selvaggiamente e senza ragione. Ovviamente ha perso fiducia in ogni uomo, ma Antonio non alzerebbe mai le mani su di me senza motivo. L’ha fatto solo una volta, ma è stato per colpa mia. Eravamo insieme da poco e volevo testare quanto fosse reale il suo attaccamento per me. Così ho finto di essere al telefono con un altro e, quando Antonio mi ha chiesto di consegnargli il mio cellulare, io non gliel’ho dato. Allora lui si è avventato su di me. Prima mi ha spinto, poi, siccome continuavo a tenere il telefono fuori dalla sua portata, mi ha preso per i capelli e mi ha trascinata vicino a lui. Io ridevo, ma lui era furioso. E gli è scappato un pugno. Si è fermato subito, appena ha visto il sangue scendere dalla mia bocca. In quell’istante è diventato più tenero e premuroso che mai. Era sinceramente pentito e si è scusato. Mi ha fatto capire che il mio era stato un pessimo scherzo e gli ho promesso che non giocherò più così pesante. Se non avessi messo in dubbio il suo amore, lui non avrebbe mai reagito in quel modo. Mi sono comportata come una vera stupida, ma ora so che per Antonio sono davvero molto importante. Me lo dice sempre: “Se mi lasci, ti uccido!”. Solo una persona molto innamorata può pensarla così.

Mi chiamo Mirko, ho trentotto anni e sono sposato con Lucrezia da quando avevamo tre anni. Nel parco giochi della scuola materna c’erano due anelli di latta, quelli che facilitano l’apertura delle bibite in lattina. Non c’erano testimoni, ma ci siamo promessi eterno amore, scambiandoci i cerchietti di metallo. Quel gesto ha segnato il nostro futuro: non sono più stato in grado di pensare a nessun’altra donna da allora. Siamo cresciuti insieme e insieme abbiamo condiviso le nostre vite. Non ci siamo più lasciati. Io ho studiato ingegneria all’estero per un paio d’anni, ma ci sentivamo in continuazione, mediante posta e internet. Mi sono sempre fidato di lei e lei di me. Sappiamo che i nostri cuori si appartengono: né il tempo né le distanze ci fanno paura. Otto anni fa ci siamo finalmente scambiati una vera fede nuziale nella chiesa del nostro paese natale, davanti ai nostri amici e ai nostri parenti. In seguito abbiamo avuto due splendidi bambini: Antonella, che compie sette anni il mese prossimo, e Davide, che ha due anni e mezzo. Siamo una famiglia unita e felice. Ovviamente le discussioni non mancano, soprattutto quando parliamo dell’educazione dei nostri figli. In quel caso si alza spesso la voce, ma poi tutto finisce con un abbraccio e il giorno dopo ci si ama di più. Non ho mai controllato il cellulare di mia moglie: non ho bisogno di rassicurazioni circa la sua fedeltà. Lei invece l’ha fatto, una volta, ma ancora oggi, ridendo, nega l’evidenza. Chissà cosa sperava – o non sperava – di trovare scritto lì dentro! Amo Lucrezia con tutto me stesso e, se improvvisamente decidesse di lasciarmi, la prima domanda che mi farei è “perché”? Non riesco a immaginare una vita senza di lei. Siamo così felici che mi sarebbe difficile comprendere, ma nonostante il dolore immenso che potrei provare, la stimo così profondamente che temo che alla fine la lascerei andare. I miei figli invece sono tutto ciò a cui non potrei mai rinunciare. Davide sta imparando a parlare e, ad ogni nuova frase che pronuncia, per noi è festa, tra risa e lacrime di commozione. Antonella è la donnina di casa, la mia principessa, l’unica a cui non so mai dire di no. Ieri pomeriggio mi ha convinto a portarla alla sua prima pigiamata tra amiche. Cenerà con loro e poi faranno dei giochi insieme, sempre sotto la supervisione dei genitori della padroncina di casa, ovvio. Alle 23.00 in punto andrò a prenderla, per riportarla nel suo lettino. È così emozionata che in queste due notti non ha chiuso occhio: ha paura di fare una figuraccia, addormentandosi prima del rientro a casa. È una bambina così dolce, ma devo prepararmi: la mia cucciola sta crescendo.

Sono le 22:50 e Antonio mi sta trascinando con forza sull’auto. Mi fa male il braccio, ma più cerco di divincolarmi e più lui stringe. Eravamo in un locale e stavamo bevendo un paio di cocktail. Lui si è assentato per andare al bagno e un ragazzo, credendo che fossi sola, mi si è avvicinato per offrirmi un altro drink. Gli ho subito risposto che ero accompagnata e allora lui gentilmente mi ha detto che doveva immaginarlo, perché una bella ragazza come me non poteva essere sola. Ho sorriso, perché un complimento fa sempre piacere, ma proprio in quel momento è tornato Antonio. Deve aver equivocato il mio atteggiamento cortese. Senza dare spiegazioni, ha steso con un pugno il ragazzo e poi ha dato uno schiaffo a me, facendo cadere il bicchiere che avevo tra le mani. Infine mi ha afferrata per un braccio e mi ha trascinata fuori, urlandomi addosso che sono una puttana, che non mi si può lasciare mai sola, che per colpa mia aveva fatto male a un ragazzo e che ora non avrebbe potuto più mettere piede in quel locale. I suoi occhi gridano collera e il fatto che sia ubriaco non aiuta. So che finirà come la prima volta che mi ha picchiato. So che mi farà male, ma poi tornerà il sereno tra di noi, come succede sempre. Sentirò dolore e domani dovrò inventare una scusa con la mia famiglia per coprire i lividi, ma è solo questione di tempo: presto tutto passerà. Mi sta scaraventando in auto. Ecco, è arrivato il momento. Mi preparo. Ma che fa? Non mi picchia? Mi sta fissando. Adesso sta mettendo in moto. Dove mi sta portando?

Sono le 22:50 ed è ora di mettersi in viaggio: Antonella mi sta aspettando. In auto non sono solo: con me ho dovuto portare anche Davide. Il mio piccolino si è svegliato piangendo e Lucrezia dormiva così profondamente che ho preferito non svegliarla. “Papi, io nanna te”, mi ha detto allungando le manine sul mio collo. Non è la prima volta che per farlo addormentare adotto la tecnica di caricarlo in auto di notte. Credo che i sobbalzi delle ruote sull’asfalto lo cullino meglio delle nostre braccia e in pochi istanti cederà al sonno. “Stai tranquillo e riposa”, gli ho sussurrato agganciando la cintura di sicurezza del seggiolino. Lo guardo nello specchietto retrovisore prima di partire. È un cucciolo meraviglioso. Dio solo può immaginare quanto lo ami! Antonella non si stupirà di vederlo, ma appena salirà in macchina lo riempirà di baci, come fa sempre quando lo vede dormire. Anche lei lo adora, ma lui non le permette di baciarlo quando è sveglio, così lei è costretta ad approfittarne quando la stanchezza gli annulla le difese. Li immagino da grandi: saranno due giovani forti e gentili e, quando avranno bisogno di un buon consiglio, io e mia moglie saremo pronti a dispensarglielo. Sono il senso della nostra vita e tra pochi minuti saremo ognuno nel nostro letto, sognando spensierati l’arrivo del nuovo giorno.

Antonio ha bevuto e sta guidando come un pazzo. Mi sta dicendo che non può vivere senza di me, ma che non può stare con una che ci prova con tutti. Avrei preferito che mi picchiasse. Non capisco quali siano le sue intenzioni, ma non posso parlare o si arrabbierà di più. Sto piangendo, perché non riesco nemmeno a discolparmi. Sono stata davvero una stupida a sorridere in quel modo. Non avrei dovuto nemmeno ascoltare la voce di quel ragazzo: a volte mi comporto come una vera ingenua. La furia che aveva negli occhi è diventata disperazione e disprezzo. Non vedo l’ora che tutto finisca: voglio solo tornare a casa. Davanti a noi c’è il cartello che indica l’autostrada e Antonio sta svoltando per imboccarla. Il fischio del telepass ha interrotto per un attimo la tensione che si è creata tra noi e trovo il coraggio di parlare. “Dove stiamo andando?” chiedo. Lui si volta a guardarmi, ma il suo sguardo mi terrorizza: mi sta sfidando. “Ti porto dove meriti: all’inferno!”. Oh, mio Dio! Che sta facendo? Quello è lo svincolo per chi esce, non per chi entra!!! “La stai prendendo al contrario, Antonio! Che fai? Così ci ammazzeremo!!!”. Di nuovo si volta verso di me, con fare gentile, come per rassicurarmi: “Solo così ti avrò per sempre e sarai solo mia!”.

L’autostrada è semideserta a quest’ora: in pochi minuti sarò da Antonella. Chissà quanto sarà felice! È la sua prima uscita serale con le sue amiche. Parlerà di questo pigiama party per mesi. Davide non sta ancora dormendo, ma vedo la sua testolina cadere nel vuoto di tanto in tanto, segno inequivocabile del fatto che sta cedendo. Tra le braccia stringe il suo pupazzetto preferito e sulla radio ho messo della musica classica per conciliargli il sonno. Guido piano, seguendo la corsia più a destra per non creare impiccio a chi sopraggiunge a velocità più sostenuta. Imbocco l’uscita. In lontananza mi sembra di vedere delle luci. Probabilmente stanno facendo dei lavori e… Questo è molto strano: le luci si avvicinano… Non è possibile! Sono i fari di un’auto, nella mia stessa corsia, in senso contrario. Sopraggiunge a velocità folle. Che sta succedendo? Lo sto abbagliando ma sembra che non abbia intenzione di fermarsi. Rallenta! Così mi verrai addosso! Rallenta! Ho mio figlio di due anni in auto! Fermati per l’amor di DIO!!!

“Sei pazzo! Fermati! Cazzo, fermati!!!”. Sto urlando disperatamente e all’improvviso le parole di chi mi aveva avvertita cominciano a prendere senso. Troppo geloso, troppo ossessivo… non è un rapporto sano… sei la sua mania… allontanati finché sei in tempo… lascialo… difenditi… fatti rispettare… se non vuoi farlo per te, fallo per la nostra amicizia, per il tuo futuro… Avverto lo schianto frontalmente. Qualcosa di ingombrante ha invaso lo spazio di fronte a me. Sento un forte peso sullo stomaco e il sapore del sangue nella bocca. La macchina gira su sé stessa e per una frazione di secondo il tempo rallenta e incrocio gli occhi spaesati di un bambino nell’altra automobile. Anche lui mi guarda, smarrito, e non posso fare a meno di sentirmi colpevole. L’auto gira ancora, una, due, forse tre volte. Fa rovesciare l’altra, che finisce contro il guard rail. Finalmente anche la nostra auto si ferma. Gli air bags sono esplosi e i vetri sono completamente in frantumi. Non sento dolore, ma non riesco a toccarmi. Un braccio è piegato in una posizione innaturale e l’altro… Oh, mio Dio! Dov’è il mio braccio? Nel buio vedo solo una macchia nera che si allarga su quello che è rimasto della mia camicetta. Ho freddo e ho tanta paura. Provo a muovermi, ma un pezzo di carrozzeria mi si è conficcato nello stomaco. Antonio ha perso conoscenza, ma improvvisamente di lui non m’importa più niente. Sto provando a urlare, ma qualcosa in gola m’impedisce di emettere suoni. Dall’altra auto non sopraggiungono rumori. Non so chi guidava, ma là dentro ho visto un bambino. Un bambino. Abbiamo ucciso un bambino! Che colpa poteva avere lui in tutta questa storia? Abbiamo spezzato la sua giovanissima esistenza e quella di tutte le persone che lo amavano e che resteranno in vita, a piangere la sua scomparsa per il resto dei loro giorni. Perché ci hai fatto questo, Antonio? Se volevi morire, potevi farlo da solo! Solo adesso me ne rendo conto: avevo tutto, prima che tu me lo portassi via. Adesso non mi rimane più niente, nemmeno la consolazione di abbandonare questo mondo avendo stima per me stessa, per quello che sono stata. La verità è che anch’io mi sento colpevole, perché anch’io, con la mia permissività nei tuoi confronti, ho ucciso quel bambino. Sento gli ultimi battiti farsi sempre più lenti e fiacchi nel petto e mi sembra di vederlo. La vita mi sta abbandonando, ma i suoi occhi smarriti durante l’impatto, che mi chiedevano di vivere ancora, rimangono fissi nei miei. Scusami cucciolo, perché solo adesso mi appare tutto più chiaro. Se ti avessi incontrato prima, sapendo quello che ci sarebbe capitato, mi sarei comportata molto diversamente. Se ti avessi conosciuto prima… Se solo avessi saputo… Che peccato che non ci sia concesso di conoscere il futuro: se potessi tornare indietro, non mi lascerei più né picchiare né umiliare. Perdonami se puoi, perché solo adesso mi rendo conto che tutto questo si poteva evitare. Ti supplico, assolvimi piccolo! Scusami, mamma! Scusami, Anna! Avrei dovuto ascoltarvi! Come ho fatto a restare sorda al peso delle vostre parole? La violenza è un tornado che si abbatte sulla mischia, perché non sa contenere la sua forza distruttiva. Miete le sue vittime in preda a una furia cieca e la conta dei danni comprende il dolore di molte persone. È inutile giustificare gli insulti e coprire i lividi, prima o poi sconfinerà. Soltanto adesso capisco. Così tu, piccolo martire innocente, se avessi potuto parlare, anche tu mi avresti supplicato di guardare in faccia alla realtà. Anche tu ti saresti unito al coro. Anche tu, come tutti, mi avresti urlato forte: “Fallo per me!”. Ormai è tardi: il destino si è compiuto. Mi sento più debole a ogni attimo: la forza mi sta abbandonando. In lontananza sento il suono delle sirene. Qualcuno sta parlando, ma lo ascolto a fatica: “Morirà anche lei, come gli altri. È intrappolata nelle lamiere. Non ce la farà!”. I battiti si smorzano. Il freddo aumenta. Chiudo gli occhi. La mia vita finisce a diciannove anni, per colpa di un pazzo che mi amava al punto di ammazzarmi.

E poi sei arrivata tu…

Il dolore di un pizzicotto nelle viscere mi sveglia nel cuore della notte. Lo sento ripetersi a ritmo continuo e crescente.

Apro gli occhi.

Mi sembra di non sentirlo più e mi sistemo il cuscino tra le ginocchia. Non faccio a tempo a richiudere le palpebre ed eccolo: si ripresenta.

Alzo un braccio per prendere il cellulare sul comodino.

Non ho mai portato l’orologio al polso perché lo trovo scomodo. Inoltre, quando si vive in una società tecnologica come la nostra, ci sono mille modi per conoscere l’ora…

Mezzanotte e zero due del quattro ottobre.

Non può essere! Sta accadendo davvero!

Comincio a contare le pause tra un dolore e l’altro. Arrivo a malapena a venti e ripartono.

Calma! Respira profondamente e rilassati!

Istintivamente mi porto le mani sulla pancia, così grossa che sembra possa esplodere da un momento all’altro. Il ginecologo mi aveva dato proprio questa data come termine della gravidanza. Mai avrei creduto che poteva azzeccarci!

Improvvisamente mi assale il panico.

Oddio! Come suo padre! Un’altra maniaca della puntualità!

Riprendo il cellulare e inserisco il timer.

Le contrazioni sono vicinissime, meno di trenta secondi l’una dall’altra.

C’è una cosa che mi lascia perplessa: il fatto che sono vagamente dolorose, mentre le immaginavo al limite della sopportazione umana. Alla mente mi riaffiora il ricordo di una discussione con una mia amica che sosteneva di non aver sofferto durante il parto. “Poco più potente delle mestruazioni”, mi aveva assicurato sorridendo. Titubante avevo deciso di non crederle, giusto per scaramanzia: se mi preparavo al peggio sarebbe stato più facile accettare il meglio. Certo che se le doglie avevano quell’intensità era davvero inconcepibile che nei film presentassero il parto con tutti quegli urli.

La rapidità del loro ripetersi inizia ad essere troppo ravvicinata.

È il caso di prepararsi.

“Amore! Amo, credo che ci siamo!”.

Scuoto leggermente l’avambraccio di Bernardo che, sbuffando con gli occhi ancora chiusi, mi risponde con un filo di voce: “Ci siamo a far che?”.

A scalare l’Everest! Ma ti sembra?

“Indovina”, sibilo a denti stretti sarcastica.

“Allora me lo dici domani”.

Non ci sono dubbi sul perché la gravidanza sia stata affidata al genere femminile.

“Se vuoi partorisco qui!”.

Improvvisamente le sue palpebre provano a spalancarsi senza riuscirci.

“Ah! Quindi intendi dire che…”

Ma vah!

É vero che i miei ormoni mi stanno rendendo intollerante e vagamente stronza, però non ho mai svegliato qualcuno senza motivo. Per l’intera gestazione non ho mai avuto “le voglie”, tranne quando me le inventavo, giusto per viziarmi un po’. Soprattutto, ho sempre sonnecchiato alla grande, quindi la notte avevo altro da fare che chiedere angurie, gelato e cioccolato: decisamente meglio dormire!

Lentamente ci alziamo dal letto per prepararci. Non siamo sovraeccitati come mi sarei aspettata, invece con tranquillità iniziamo i preparativi a lungo pensati.

Mentre entro in doccia la mia mente mi riporta con piacere al primo giorno di questo lungo viaggio.

Era gennaio e in casa avevo ancora degli stick ovulatori che avevo comprato su internet, per testare la dinamica dei miei cicli perennemente irregolari. Come sempre avevo un ritardo, ma, nonostante non fosse una novità, avevo deciso di provare a bagnare uno stick, spinta dalla curiosità. Ancora oggi mi chiedo perché, visto che non avevo motivo di credere di essere rimasta incinta. Penso che a volte l’istinto ci porti a fare cose irrazionali che alla fine si rivelano sensate. Non ho mai creduto nel destino, in qualcosa di già precedentemente pianificato da una qualche entità ultraterrena. Se esiste un Dio, se ne sta beato e spensierato a godersi lo spettacolo del suo creato! Credo piuttosto in una forza interiore, che ciascuno di noi possiede e che si manifesta in azioni e pensieri apparentemente sospinti dal nulla, ma finalizzati a renderci palese qualcosa di cui, in verità, il nostro inconscio è già consapevole. Guardando l’esito di quella prova, anche se non si trattava di un vero e proprio test di gravidanza, compresi immediatamente: il rosso della strisciolina laterale, colorata dagli ormoni presenti nelle mie urine, era troppo evidente. Il problema era che, neanche scegliendolo, sarei stata in grado di azzeccare un momento meno opportuno. Avevo appena accettato un lavoro importante che, date le circostanze, ora avrei dovuto rifiutare. Mio marito era fuori città per lavoro e, soprattutto, il ginecologo mi aveva assolutamente vietato di rimanere incinta! In due anni avevo già abortito due volte e, con un tempismo perfetto, per la settimana successiva avevo fissato il primo incontro con uno specialista in materia. Rimanere incinta adesso significava trovarsi di fronte al terzo appuntamento con un raschiamento quasi certo! Mi trovavo in una situazione troppo incomoda e c’era solo una persona a cui dovevo assolutamente dirlo: Bernardo.

“Pronto, amo, ho combinato un disastro”, fu l’incipit della mia telefonata.

“Hai rotto la macchina?”.

Perché un uomo pensa sempre che il dramma più tragico della vita riguardi un danno all’automobile?

“No, molto peggio”, risposi soffocando un singhiozzo.

“Non farmi gli indovinelli. Cosa è successo?”.

“Sono incinta”, risposi con un filo di voce che a malapena io ero riuscita a sentire.

“Puoi parlare con un tono più alto per favore?”, replicò lui.

“Sono incintaaaa!”, riuscii a dire tutto d’un fiato.

“No, dai, seriamente, dimmi cos’è successo davvero…”

La sua voce mi riporta alla realtà.

“Allora? Sembrava che dovessi partorire in un secondo e invece sei ancora sotto la doccia?”.

Questa volta non posso dargli tutti i torti.

La verità è che mi sto preparando per il giorno più particolare di tutta la mia vita e voglio farlo lasciandomi trasportare dalle emozioni: per una volta, oggi sarò libera da tutte le inibizioni.

“Sono pronta”, gli dico, mentre prendo la borsa che con cura ho preparato almeno due settimane prima. Dentro c’è tutto il necessario per affrontare la degenza e il parto. Con un rapido sguardo saluto la mia casa e la mia Yorky, con la promessa che tornerò presto.

Il viaggio fila liscio, con dolori che di tanto in tanto mi fanno sobbalzare sul sedile, senza però mai oltrepassare la soglia della tollerabilità.

“Signora, è dilatata solo di un centimetro. Stia tranquilla, torni a dormire e ci vediamo domani mattina”.

Il ginecologo di turno all’ospedale mi dilegua così dopo una breve visita.

Dormire? E chi può dormire adesso?

Speravo di risolvere velocemente la cosa, ma non è ancora giunto il momento.

La pancia negli ultimi giorni è diventata insopportabilmente pesante e anche il semplice camminare mi viene difficile. Mi sento orrendamente goffa e mi sembra di poter cadere a terra a ogni passo. Quando la bambina si gira sento i suoi arti che si allungano e si piegano internamente contro i miei organi. Non è una sensazione piacevole, soprattutto quando si appoggia sul nervo sciatico. La immagino dentro di me, con un faccino da diavoletta, mentre mi mostra l’indice alzato minacciosa, avvisandomi delle sue malefiche intenzioni. Poi, sogghignando, mette il ditino sul nervo e gioca a farmi rimanere senza fiato, pizzicandolo come fosse la corda di uno strumento musicale.

Rincasiamo con un’accoglienza calorosa di Yorky, che abbaia e corre in circolo a tutta velocità. Credo sia contenta di non vederci in compagnia della piccola estranea.

“Prima o poi dovrai farci l’abitudine, Yorky”, le dico mentre mi accascio sul divano. Non posso fingere di non sentire le contrazioni che stanno diventando sempre più forti.

Sono le due del mattino e devo presentarmi in ospedale alle nove.

Nonostante abbia sonno, non riesco a dormire, a causa del dolore e per via dell’eccitazione che, poco a poco, sta aprendo una breccia nel mio profondo. Non mi resta che provare a sdraiarmi qui, chiudere gli occhi e rilassarmi.

Il primo trimestre è stato il più difficile.

La cosa più ridicola fu quando avvisai il ginecologo della scoperta.

“Pronto, dottore? Si ricorda quando mi aveva detto che non dovevo assolutamente rimanere incinta in questo momento? Ehm, sì, ecco… Non so come sia successo…”.

E lui, dall’altra parte del telefono, serio: “Se vuole le faccio un disegnino!”.

Solo a me poteva capitare un ginecologo così!

In seguito, la paura di perdere il feto fu davvero molta. Ogni piccolo dolore era motivo di panico: ogni volta la corsa in bagno alla ricerca di tracce di sangue sugli slip e, ogni volta, la fortunata sorpresa di non vederne nemmeno l’ombra. La cosa peggiore era la stanchezza, il continuo e frustrante senso di spossatezza. Odio perdere il controllo e questo è il motivo per cui non mi sono mai concessa una sbronza. Sentirsi perennemente persa nel vuoto, incapace di pensare perché troppo stanca per farlo, mi dava quasi ai nervi. Così, io che generalmente ho una pazienza proverbiale, mi alteravo per il più futile dei motivi. La mia sensibilità all’olfatto si accentuò a dismisura. Su una rivista avevo letto che i cani, quando per strada si fermano e annusano a lungo un centimetro di terreno, lo fanno perché stanno elaborando un insieme di informazioni che comprendono proprio per mezzo del loro naso, come se stessero leggendo un giornale. Beh, se avessi avuto il coraggio di mettermi a quattro zampe per strada col mento all’ingiù come Yorky, posso assicurare che anch’io avrei “letto il giornale”. Anche le nausee mi hanno fatto compagnia a lungo ma, malgrado la sensazione di avere lo stomaco chiuso, sono riuscita ad aumentare la bellezza di diciotto chili!

Chissà quanto tempo ci impiegherò per tornare in forma!

Io che ho sempre curato il mio aspetto fisico con diete salutistiche e tanto sport, accetto con difficoltà questa mia orrenda trasformazione. È il primo grande sacrificio che richiede la maternità.

Il passaggio al secondo trimestre è stato una rivelazione, un netto ribaltamento di stato. Da un giorno all’altro decisi che avevo voglia di rinnovamento e iniziai a dedicarmi alla ritinteggiatura di casa. Con la pancia che iniziava a esplodere sotto i vestiti, pitturai prima la camera matrimoniale, poi l’ufficio e infine la cameretta. Nel frattempo avevo avuto conferma che nel mio grembo ospitavo una bambina, quindi potevo decidere di colorare ogni spazio di rosa ma, visto che potevo incappare in qualche errore di lettura delle ecografie, decisi di farla azzurra, come il cielo. Qua e là nel soffitto ci ho disegnato delle nuvole, soprattutto sopra i mobili, dove il pennello non riusciva ad arrivare. Ho ridisegnato il lampadario con della plastica giallo-fluorescente a forma di raggi, per rendere l’idea di un sole, e ho cosparso una parte della camera di stelle luminescenti che si rivelano al buio. Poi, per augurarle il buongiorno ad ogni risveglio, su una parete ho scritto a caratteri cubitali It’s a beautiful day. Giocare con le tempere e i colori mi ricaricava di un’incredibile vitalità. Mentre pitturavo, a mente ripassavo l’inventario delle cose da comprare in vista del suo arrivo. La mia fortuna è che molte delle mie amiche avevano da poco vissuto quest’esperienza e avevano molti consigli da dispensarmi. Non ne ho trascurato nemmeno uno!

All’inizio, l’idea di avere il pancione era piacevole, ma come fine a sé stesso.

La consapevolezza che sarei diventata mamma è arrivata quasi al traguardo.

Con essa le prime preoccupazioni, anche le più banali.

Non ho la più pallida idea di come si cambi un pannolino e mi chiedo come capirò dai suoi pianti di cosa avrà bisogno.

Il solo fatto di prendere in braccio un neonato mi mette a disagio con quella testolina instabile che ‘sballonzola’ priva di sostegno. Mi sento inadeguata oltre che impreparata. Quando ho confessato apertamente queste cose, chiunque ha cercato di rassicurami dicendomi: “Vedrai, ti verrà naturale”. Ma se così non fosse?

“Svegliati, amore. Dobbiamo andare!”.

Bernardo mi bacia dolcemente su una guancia, mentre realizzo con stupore di essermi addormentata mio malgrado. I crampi, che avvertivo questa notte, sono ancora lì e, a dire il vero, anche la loro intensità. Forse nemmeno questa volta accetteranno di trattenermi in ospedale.

“Se non sbaglio lei aveva fissato per oggi il monitoraggio perché è a termine”, mi suggerisce l’infermiera che mi accoglie al reparto maternità. “Bene, si accomodi su quel letto e si sollevi la maglia fino al reggiseno”.

Mi mette una fascia e uno strano strumento sulla pancia, credo un rilevatore del battito della bambina. Poi lo aggancia a una macchina e se ne va.

Mentre ascolto il ritmo cadenzato del suo cuore, sonnecchio pensando a me stessa con la piccola in braccio.

Non riesco a immaginare di amare questa bambina più di quanto già non lo faccia ora. È arrivata quando meno me lo aspettavo, desiderata sì, ma insperata.

Dovrò iniziare da subito a dettare delle regole, in modo che cresca con una certa educazione! Questo non significa che eviterò che commetta degli sbagli: dagli errori si impara a rialzarsi e a non compierli più. Le dirò poche volte no, ma quando lo farò sarò determinata e decisa, così che impari da subito a comprendere il divario tra bene e male. Le insegnerò ad amare, a essere ambiziosa ma ad aver rispetto dei più deboli; a essere gentile, ma anche forte e tenace per poter inseguire e realizzare i suoi sogni.

Nel frattempo entra un altro dottore, diverso da quello della notte.

Il suono del battito cardiaco della piccolina viene distorto dalla macchina e, di tanto in tanto, interrompe il suo galoppo sfrenato soffocando a poco a poco nel silenzio più totale. Poi riprende la sua corsa, concedendosi ancora una sosta.

Il ginecologo si avvicina e muove il rilevatore. Guarda il tracciato che emette la macchina e mi guarda, incupendosi.

“C’è qualcosa che non va”.

Cerca il sostegno di un’infermiera, che a sua volta guarda il tracciato.

Per la prima volta, ho davvero paura.

Anche il mio cuore ha smesso di battere e sento di impallidire vistosamente.

Lei è viva, sento i suoi battiti, quindi è viva. È malata? Perché questi due si sono appartati a parlare e mi guardano con fare sospetto?

“Sembra che la bambina sia in leggera sofferenza. Devo visitarla d’urgenza”.

Non riesco più a pensare. Non emetto suono. Sono una marionetta nelle mani dell’uomo che ho di fronte ed eseguo tutti gli ordini che mi impartisce.

“Non ha più liquido amniotico, signora. Suo figlio deve per forza nascere oggi!”.

Non capisco se mi sta minacciando o se mi sta dando una buona notizia.

Credo che la sua intenzione sia quella di cercare di mettermi a mio agio, ma quel c’è qualcosa che non va continua a ronzarmi nelle orecchie, impedendomi di sentire altro. “A proposito, femmina o maschio?”, continua per cercare di smorzare la tensione. “Femmina”, rispondo meccanicamente.

Me l’avranno chiesto centinaia di volte in questi mesi! Perfino dei perfetti sconosciuti mi hanno fatto questa domanda, accarezzandomi la pancia senza nemmeno chiedermi il consenso.

“E come ha deciso di chiamarla?”.

Anche questa è una domanda che mi hanno posto un milione di volte.

Il problema è che non esiste un nome adeguato a qualcosa di così grande. Vorrei un nome raro, quasi unico, che abbia un significato per me, per noi. Bernardo vorrebbe chiamarla Azzurra, ma a me non convince. Non capisco il senso di chiamarla con il nome di un colore: non è nemmeno il nostro preferito…

“Non è ancora deciso. Spero di avere un’illuminazione quando la vedrò”.

“Non le rimane molto tempo, comunque… Adesso le metterò del gel che indurrà le contrazioni e, nel giro di qualche ora, dovrà partorire sia la bambina sia il suo nome!”. Abbozzo un sorriso.

Cavolo! Questa sì che è una minaccia!

Quindi i dolori che ho da stanotte non sono le vere contrazioni?

Sapevo che dovevo aspettarmi il peggio!

Un’infermiera mi accompagna in sala parto e, dopo poco, mi raggiunge Bernardo.

La stanza ha una vasca, un lettino e c’è anche un grande pallone bianco su cui è possibile sedersi per facilitare i movimenti circolari del bacino.

Un’altra operatrice sanitaria mi si avvicina e si presenta come la mia ostetrica, nonché la persona che mi accompagnerà al parto.

Passano pochi attimi e le contrazioni cominciano a diventare acute.

Dapprima una smorfia di dolore mentre sono sdraiata, poi un sollevamento sul fianco, infine la decisione che è meglio provare a restare in piedi.

Improvvisamente sento qualcuno che mi morde i fianchi e i reni da dentro.

Un brivido mi percorre la schiena e mi aggrappo alla sbarra del letto.

“Prova a dondolare sui fianchi: il dolore si attenua così”, mi dice l’ostetrica. Fortunatamente il male mi morde la lingua.

Provaci tu stronza! Hai idea di quello che mi stai chiedendo? Ma vaffa…

Oh mio Dio! Ecco perché tutti quegli urli nei film! Altro che preparata al peggio: il peggio qui non ha fine!

Guardo la macchina che sta rilevando l’intensità delle doglie. Quando si innalza compie dei picchi che il foglio non riesce nemmeno a immortalare. Ed è proprio in quegli istanti che la sbarra del letto trema insieme a me, ormai in preda alle convulsioni.

Non riesco a fare a meno di urlare, è più forte di me. Tremo e urlo.

Il ginecologo mi fa sdraiare per provare il mio stato di dilatazione.

Non mi accorgo nemmeno di come arrivo sul lettino.

A malapena sento che mi sussurra dolcemente: “Non è abbastanza dilatata e la bambina è in sofferenza. Dobbiamo procedere col cesareo”.

Forse mi sento sollevata, o forse devo preoccuparmi ancora di più, ma il dolore è troppo forte.

Fatemi quello che volete, ma toglietemela da lì dentro!

Vedo lo sguardo preoccupato dell’ostetrica, mentre dice alla collega che bisogna intervenire con la massima urgenza.

Provo a costringermi a restare ferma, quando mi aiutano a salire sulla lettiga che mi condurrà nell’altra sala. Non m’importa di essere nuda, né di perdere sangue. Voglio solo che tutto finisca al più presto.

Quando m’impongono di sedermi per iniettarmi l’anestesia, devono tenermi in tre per evitare che la siringa si conficchi in distretti non idonei, perché le contrazioni mi colgono di sorpresa con un’intensità inaccettabile, che il mio corpo non riesce né a controllare né a sopportare.

Stanno agendo tutti con estrema fretta.

Muovo ancora le gambe, quando il bisturi si conficca nella mia carne.

Urlo perché ho sentito il taglio dell’incisione. Poi la lama diventa uno sfioramento leggero e freddo sulla pelle.

Il dolore è sparito.

Un senso improvviso di svuotamento e la tensione del mio ventre si affievolisce.

Vedo il suo corpicino passare velocemente nelle mani dell’ostetrica.

Inizio a piangere, tra la commozione, la tensione, l’ansia.

“Perché non piange?”, urlo, mentre la cerco con lo sguardo, inclinando il capo all’indietro, verso la culla termica.

“Davvero non la sente? Sta buttando giù l’ospedale!”, mi dice l’ostetrica, sorridendo amabilmente.

Poi la sento. È vero: sta piangendo!

Le lacrime mi rigano le guance senza che possa trattenerle.

Singhiozzo come lei: madre e figlia unite in un solo pianto.

“Voglio vederla! Fatemela vedere, vi prego!”.

Commossa, l’ostetrica mi guarda e poi prende il fagottino che tiene tra le mani, scoprendole il viso. Ha gli occhi aperti e mi osserva.

Il cuore mi sobbalza nel petto. È amore a prima vista: amore puro, folle, illimitato. Possono evitare di metterle il bracciale: riconoscerei quegli occhi tra mille.

Non posso accarezzarla, perché ho le braccia legate al lettino, ma è bastato l’incrocio dei nostri sguardi a calmarci reciprocamente.

Mi sembra di non aver mai vissuto fino ad ora.

In quest’istante il mondo che avevo conosciuto ha cessato di esistere.

È l’alba di nuove vite: la sua, da poco venuta al mondo e la mia, che scopro per la prima volta cosa significa Amare.

Non ho più dubbi.

Mentre la conducono nella sala accanto, mi rivolgo al ginecologo, assorto a ricucirmi la ferita.

“Ho una figlia!”, esclamo orgogliosa.

Lui sposta momentaneamente l’attenzione sul mio volto, scrutandomi.

Non gli lascio il tempo di pormi la domanda e lo anticipo.

“Ho deciso: si chiamerà Aurora”.

Il tesoro

Alle prime luci del mattino, un uomo sedeva sul bordo di una cinta. Il vento soffiava in piccoli turbini, sollevando la polvere, e le sue gambe oscillavano nel vuoto, sospinte dalla sua debole forza. Teneva la testa china, osservando le proprie mani macchiate dal sole e segnate dal tempo, raccolte sul grembo. Una bambina con un fermaglio blu a forma di stella tra i capelli gli si avvicinò. Lo squadrò, evidentemente incuriosita.

“Che cosa tieni tra le mani?” gli chiese.

L’uomo rispose, con l’incertezza di chi non vuol dare spiegazioni ma nemmeno essere scortese e, alla fine, risolve riformulando un’altra domanda: “Che cosa credi che ci sia?”

La bambina lo scrutò con più attenzione.

“Se nascondi qualcosa, dev’essere un tesoro!” sentenziò.

Sul volto dell’uomo calò un velo di tristezza.

“Sì, un vero tesoro” sospirò.

“Facciamo un gioco: io ti dico un segreto, però prima tu mi dici qual è il tuo tesoro?” gli propose la piccola, sempre più curiosa.

“I giochi devono essere divertenti! Il tuo non ha l’aria di esserlo” le disse l’uomo, soggiogato dalla sua dolcezza.

“Allora rendiamolo divertente: facciamo che io ti racconto il mio segreto, se tu mi lasci indovinare qual è il tuo tesoro!”. L’uomo sorrise per l’ingenuità e l’arguzia della sua risposta. Poi, con un cenno del capo, acconsentì alla proposta, altresì sospinto dalla speranza che in quel modo si sarebbe liberato presto di quel piccolo impiccio.

“Sei un astronauta e tra le mani hai una stella?”

L’uomo corrucciò il volto, incredulo di fronte a tanta fantasia. Poi scosse il capo.

“Sei un mago e tra le mani hai una pozione magica?”

“No, io…” cercò di interromperla.

“Sei un principe e tra le mani hai la tua corona?”

Non riuscì a trattenere il sorriso e con il volto negò anche questa possibilità.

“Sei un pirata e tra le mani hai una perla?”. Questa volta la bambina aveva assunto un tono di sfida.

“No” contestò l’uomo, che non capiva il senso logico dei suoi pensieri. “Perché è così importante per te sapere chi sono?”

“Perché solo sapendo chi sei, posso capire qual è la cosa che ritieni più importante. Allora scoprirò qual è il tuo tesoro!”. Aveva senso.

“Allora chiedimi che lavoro faccio” la incoraggiò lui.

“Il lavoro che fai non può dirmi chi sei” gli spiegò lei.

“Mi hai chiesto se sono un astronauta, un mago, un principe o un pirata: certo che vuoi sapere che lavoro faccio” replicò l’uomo.

“No! Io volevo solo sapere se credi ai sogni, alla magia, alla poesia o se invece preferisci l’avventura…” chiarì la bambina.

Colto alla sprovvista, rispose frettolosamente, con la stessa spontaneità con cui lo aveva fatto lei: “Credo nell’amore” disse tutto d’un fiato.

“Vuol dire che sei innamorato?” insistette lei, cercando una traduzione per le sue parole più conforme alla semplicità del vocabolario da lei conosciuto.

“Sì, con tutto il mio cuore” replicò lui, fissandosi le mani scarne attraversate dalle vene prorompenti, con gli occhi gonfi per l’emozione.

“Allora perché sei triste?”.

L’uomo sussultò. Quella bambina era molto più intuitiva di quanto avesse creduto a prima vista. Meritava una risposta semplice, ma sincera: “Perché l’ho perso” dichiarò.

“Nessuno può perdere l’amore e nessuno può rubartelo!” esclamò con disappunto. “Non sai che l’amore abita nel cuore? Se sei vivo e il tuo cuore batte ancora, anche l’amore che hai lì dentro è vivo! Quindi non puoi perderlo, come non si può perdere il cuore!”.

L’uomo la fissò interessato. Era la sua ingenuità a parlare o qualcuno le aveva suggerito quelle parole? Era davvero così elementare quello che aveva appena dichiarato o lui si era confuso sulla sua tenera età, giudicandola più giovane di quanto non fosse realmente? La scrutò e nella profondità dei suoi occhi lesse la limpidità e la chiarezza dell’infanzia.

“È vero quello che hai detto, ma io ho perso la persona che amavo” si giustificò.

Con la medesima sicurezza la bambina gli rispose senza pensare. “Allora non devi far altro che cercarla! Ti dirò come fare: se sei un astronauta, ritorna tra le stelle e cercala dall’alto; se sei un mago, fai un incantesimo e falla ricomparire; se sei un principe monta sul tuo cavallo bianco e cavalca per tutto il regno e se sei un pirata, ritorna sul tuo veliero e rintracciala, navigando in tutti gli oceani. Non puoi arrenderti! Nessun eroe lo farebbe!”.

“Ma io non sono un eroe!” rispose l’uomo, schernendosi.

“Certo che sei un eroe! Una signora che conosco molto bene dice sempre che siamo tutti degli eroi, perché serve coraggio per vivere. Chiunque affronti le proprie paure, non chiudendosi in se stesso, decide di essere il protagonista della propria vita e se le vince è un eroe”.

Un morso al cuore lo costrinse ad aprire la bocca per catturare più aria e colmare il vuoto dei suoi polmoni. “Conoscevo qualcuno che diceva la stessa cosa…” proferì con un filo di voce, sommerso dal ricordo. “La signora che conosci è molto saggia” osservò ammirato, come aveva già fatto in passato, ascoltando quelle stesse parole. Poi una copiosa lacrima gli solcò il volto. “Però non posso cercare qualcuno che non c’è più”.

La bambina sembrò non badare al suo pianto sommesso e continuò.

“Se non c’è più, allora perché ti tormenti dicendo che l’hai persa? Semplicemente non c’è più!” osservò con la chiarezza che le era tipica, come qualsiasi bambino, che vive solo dell’istante e delle cose presenti. “Tu invece sì! Non puoi essere triste per sempre!” aggiunse. “Anch’io amavo tanto un orso di peluche quand’ero piccola. Si chiamava Bubo: era il mio preferito. Ho una fotografia mentre gioco con lui. Poi sono diventata grande e l’ho regalato a qualcun altro, perché adesso non gioco più con i peluche. Mi dispiace non averlo più, però sono contenta quando guardo quella fotografia  e vedo quanto mi rendeva felice giocare con lui”. Mentre discorreva, la bambina si accarezzava i capelli castani e le sue piccole dita sfiorarono il fermaglio. L’uomo avvertì una strana sensazione: dove gli sembrava di averlo già visto?

“L’amore per un peluche non si può paragonare all’amore per una persona” suggerì lui.

La sua loquacità subì un attimo di smarrimento a quella risposta. Senza aggiungere altro, continuando a guardarlo negli occhi alla ricerca di spiegazioni, si arrampicò sulla cinta e si sedette di fianco all’uomo, pronta all’ascolto.

“Quando hai regalato il tuo peluche, l’hai fatto perché non ti interessava più e perché probabilmente volevi qualcos’altro. Quando crescerai ancora, nuovamente cambierai gioco, perché quello che hai già non ti darà più soddisfazione e così via dicendo, a ogni tappa della tua vita. Ogni volta andrai alla ricerca di un gioco sempre più grande e più bello, perché solo così potrai sentirti soddisfatta. Questo fino a quando la tua felicità diventerà secondaria a quella di qualcun altro. Succederà quando amerai una persona e, allora, non ti interesserà un gioco più bello che la sua gioia”. Non era sicuro che il suo discorso fosse così semplice da intendere per la sua giovane età, ma quella bambina aveva un’intelligenza notevolmente fuori dal comune e lo disponeva ad esprimersi con franchezza.

“Vuol dire che sarò felice solo quando lei sarà felice?”.

“Esattamente!”. L’uomo sorrise, meravigliato per tanta comprensione.

“E anche lei sarà felice solo quando io sarò felice?” seguitò lei.

“Sì, sarà così!” ammise lui.

“Questo significa solo una cosa: che adesso siete entrambi infelici!”.

L’uomo per l’ennesima volta la guardò esterrefatto. Non aveva mai pensato la cosa in questi termini.

“Perché non prepari qualcosa per farle tornare il sorriso?” propose, continuando a toccarsi i capelli.

“Piccola, non posso: in queste circostanze non si può far niente. Io non so far niente!” si giustificò l’uomo, mentre sentiva che il mento iniziava a tremargli nel tentativo di frenare il pianto.

“Se sai custodire tra le tue mani un grande tesoro, sei più potente di qualsiasi eroe!”.

Non aveva idea di chi fosse quel piccolo vulcano di saggezza, né da dove provenisse. Di certo però non avrebbe guastato la sua positività. Decise di metterla alla prova e la sfidò con il suo stesso linguaggio.

“Il tuo astronauta cosa farebbe?”.

“Continuerebbe ad amare le stelle! Andrebbe nella sua astronave e si metterebbe alla ricerca di pianeti sconosciuti, perché solo così potrebbe scoprirne uno migliore di quello che lui credeva il più bello”.

L’uomo pensò che d’ora in poi avrebbe guardato le stelle con occhi diversi.

“E il principe?” la interrogò ancora, scoprendosi affamato della sapienza della bimba.

“Ogni fiaba termina con le nozze del principe con la sua principessa, vivendo per sempre felici e contenti. Quindi il principe sarebbe costretto a cercare un’altra principessa. Sapendo però che il finale è sempre lo stesso, ne varrebbe sicuramente la pena!”. L’uomo rise, realmente coinvolto e con uno strano senso di leggerezza nel petto.

“Il mago invece inventerebbe nuove magie! Con la sua bacchetta magica trasformerebbe la tristezza in allegria. Poi farebbe un incantesimo, chiedendo al proprio cuore di non soffrire più pensando al passato, ma di sentirsi appagato, per le cose belle che ha vissuto e grato, per quelle che potrebbe vivere ancora”. Mentre parlava, la sua voce assunse un tono più grave e il suo lessico si fece più consono a quello utilizzato da una donna adulta.

L’uomo ascoltò rapito quello che diceva e la incitò a continuare, sospirando, mentre si chiedeva se davvero esistesse un incantesimo tanto potente.

“Il pirata invece è abituato a lottare per conquistare il suo tesoro, perciò non si stancherebbe di andare alla ricerca di nuove avventure, sfidando i pericoli del mare e perfino a costo di rimanere solo sulla sua nave. Però mai, per nessuna ragione, ci rinuncerebbe e continuerebbe a cercare nuovi tesori fino al suo ultimo respiro”.

“Sei molto più saggia di quanto dimostra la tua età” la elogiò l’uomo, contemplandola. “Dimmi dunque, tu cosa faresti?” la incalzò.

La bambina si fece improvvisamente molto seria in volto.

“Ti chiederei di essere felice, per consentirmi di essere felice a mia volta. Ti direi di stringere a te i nostri ricordi, ma di continuare a vivere, o lentamente anche i nostri ricordi morirebbero con noi. Ti pregherei di non perdere un secondo in più in rabbia, frustrazione e rimpianto, perché ogni attimo non vissuto è un attimo che non potrai più recuperare. T’invocherei di tornare a essere l’eroe della tua vita.  Poi, ti supplicherei di lasciarmi andare”.

L’uomo la guardò, confuso, ma la bambina non gli lasciò il tempo di interromperla. “Adesso sono pronta a svelarti il mio segreto”.

L’uomo sollevò le spalle e reclinò il capo, osservando la bimba con gli occhi di chi cerca delle risposte senza riuscire a dare un senso a quello che ha appena appreso.

“Sono il miracolo che hai chiesto al tesoro che stringi tra le mani”.

L’uomo sentì un brivido percorrergli la schiena. Colto di sorpresa, istintivamente aprì le mani e vi guardò dentro. Una catenina in oro gli scivolò tra le dita affusolate, mentre il ciondolo rimase saldamente aggrappato alla base del medio. Un pendente rotondo formava una piccola cornice e al suo interno, sigillata dal vetro, c’era la foto di una donna.

“Come sapevi…”

Alzò gli occhi, ma la bambina non c’era più. Al suo posto era rimasto il fermaglio che aveva tra i capelli. Guardò il suo tesoro, smarrito, ripensando a quello che era appena successo. Ripercorse ogni attimo di quell’incontro, registrando nella mente ogni minimo dettaglio del dialogo intercorso. Improvvisamente fu colto da un’illuminazione. I suoi occhi cercarono avidamente qualcosa che non avevano saputo vedere prima. Ripose il ciondolo nel proprio palmo e lo prese saldamente con le dita. Avvicinò l’immagine agli occhi per osservarla meglio. Sua moglie stava sorridendo in direzione della fotocamera e i suoi occhi verdi, che lo avevano stregato fin dal loro primo incontro, erano socchiusi per l’espressione. La sua fronte era in parte nascosta dalla frangia e la sua folta chioma raccolta solo da una parte, lasciando visibile l’orecchio. Proprio lì focalizzò tutta la sua attenzione e proprio lì lo vide: tra i capelli della donna che aveva amato più di tutta la sua vita, c’era un fermaglio blu a forma di stella.

 

Niente è quel che sembra

“Abbiamo trovato questa, signore”. L’agente Johnson consegnò una busta all’ispettore capo e Steve la aprì e ne lesse rapidamente il contenuto. “Sembra un biglietto d’addio” si pronunciò infine. “Anche questo elemento è compatibile con il suicidio”. Johnson lo guardò perplesso e non riuscì a trattenersi: “Solo compatibile? Questo è chiaramente un caso di suicidio!”. “Agente, niente è mai come sembra!” lo contraddisse Steve.“L’ipotesi più semplice solitamente è quella esatta!” ribatté Johnson, scimmiottando il tono grave della voce dell’ispettore. “Chi dice cose così intelligenti?” sorrise Steve, con lo sguardo sospeso nel vuoto, come incantato dal passaggio di una dea. “Sono parole sue, capo!” rispose Johnson, cercando il beneplacito del suo superiore. “A volte mi stupisco di me stesso, però è sempre meglio non dar nulla per scontato!” concluse. L’agente assentì silenziosamente e girò sui tacchi in direzione del ritrovamento, lasciandosi scappare un involontario sollevamento degli occhi in direzione del cielo. Il cadavere di un uomo giaceva sospeso a mezz’aria, tenuto per il collo da una corda annodata saldamente alla balaustra, in un’atmosfera surreale, in cui l’orrore di un gesto dettato dalla disperazione si univa all’irriverente freddezza degli agenti, i quali comunicavano tra loro a suon di battute di spirito. Steve contemplava la scena, cercando di dare un senso alla vocina che, nel profondo, gli diceva che qualcosa non andava. La richiesta di perdono, come ultimo atto d’addio, aveva fatto propendere l’ago della bilancia verso il suicidio, ma c’era un non so che di plateale in quella scena: pareva il set cinematografico del suicidio perfetto. Perché un uomo disperato aveva lucidato la propria dimora fino a eliminare l’ultimo granello di polvere? Quella casa sembrava essere appena uscita da qualche patinata rivista d’arredamento: troppo pulito, troppa cura per i dettagli, troppa attenzione all’ordine per un depresso cronico compulsivo che desidera ardentemente di farla finita. Uno che intende uccidersi perché dovrebbe preparare i sacchi dell’immondizia sul vialetto antistante, pronti per la raccolta differenziata dell’indomani? In quei rifiuti potevano esserci degli indizi utili e, probabilmente, anche nei cestini di casa si sarebbe potuto trovare qualcosa d’interessante, se non fossero stati sistematicamente svuotati, tranne che… “Chiamate il medico legale: voglio anche una sua perizia!” si pronunciò infine, ammutolendo gli agenti che lo guardarono contemporaneamente, alla ricerca di risposte, mentre lui sfoggiava tra le dita un pezzo di carta, come fosse il trofeo di un importante torneo sportivo. Johnson, che dei quattro era quello col quale aveva maggior confidenza, azzardò un’obiezione: “Capo, è chiaramente un suicidio. Non ci sono elementi per definirlo in maniera diversa…”. Steve lo interruppe, con tono bonario ma perentorio: “Uno scontrino battuto quattro ore fa, in un negozio a quaranta chilometri da qui, per l’acquisto di una corda per scalatori, in un cestino vuoto, ti sembra un buon elemento da cui cominciare?”. Johnson, non capiva e lo diede chiaramente a vedere. “Agente Johnson, se volessi suicidarti, andresti a comprare una corda nuova dieci minuti prima di buttarti nel vuoto, guidando con lucidità per quaranta chilometri, tornare e pulire casa prima di toglierti la vita? A me suona alquanto strano”. Strabuzzando gli occhi, Johnson prese lo scontrino dalle mani dell’ispettore, per visionarlo meglio. “Non l’avevamo notato… ” replicò l’agente deluso. “Ecco perché sono il capo: perché sono il migliore!” rispose Steve compiaciuto di sé, mentre gli altri lo guardavano costernati, a metà tra lo stupore e il disgusto per il suo narcisismo.

 

“Il cadavere presenta un’evidente escoriazione a livello del collo; qualche ecchimosi sulla parte destra del volto e un vasto ematoma in prossimità dell’orbita oculare; numerose contusioni sul corpo… Signore!”. Il medico legale chiamò l’ispettore. “Chiamami Steve, ti prego! Sono sicuro che anche Michelangelo si facesse chiamare per nome ai suoi tempi!”. Il medico lo guardò visibilmente confuso, poi, scrollando il capo come per liberarsi da strani dubbi, espresse il frutto della propria analisi. “Signor Steve, se quest’uomo si è suicidato, io posso fare la controfigura di Brad Pitt!” affermò. “Ero certo di poter confidare in te, Spencer” disse, prendendo tra le mani il cartellino identificativo dell’uomo. “Hai già formulato qualche ipotesi?”. Steve lo osservò irrequieto, con l’impazienza di un bambino che attende il finale della sua fiaba preferita. “È ancora molto presto per dire con certezza quello che è successo qui, ma sicuramente quest’uomo era già morto prima di tentare il suicidio”. Steve protrasse il busto completamente nella direzione del medico legale, rapito dalle sue parole. “Un morto non può suicidarsi!” costatò con sorpresa. “Qualcuno però può aver tentato di simulare un suicidio per nascondere qualcos’altro…Un omicidio, per esempio! …Interessante… Cos’hai trovato a sostegno della tua tesi?” chiese. “Tutto troverà conferma dopo l’autopsia, però quest’uomo sembra sia morto per i traumi ricevuti, probabilmente a seguito di una caduta…” illustrò Spencer. “… O di una colluttazione?” propose l’ispettore. “Forse! Qualcuno ha comprato questa corda in un negozio della città qui vicina esattamente questa notte, come dimostra lo scontrino che avete trovato…”. Steve lo interruppe, ostentatamente impettito. “…Che HO trovato!” precisò, per niente sarcastico, provocando una smorfia nel suo interlocutore. “Quest’uomo è stato trascinato a peso morto su questa scala e legato, con un nodo così stretto che sarebbe soffocato prima di potersi lanciare da lassù. Non sarà difficile trovare le impronte del probabile assassino” spiegò. “Ok, grazie, Spencer. T’invio il corpo per l’autopsia” replicò l’ispettore, congedandolo con una forte stretta di mano e una pacca sulla spalla. Steve aveva per le mani un singolare caso di omicidio da risolvere e non si accorse della parolaccia proferita a mezz’aria dall’uomo nella sua direzione. Quello cui pensava, era prima di tutto la necessità di ricostruire gli ultimi istanti della vittima e di interpellare i parenti più prossimi e gli amici. “Qualcuno di voi per caso conosce quest’uomo?” chiese Steve agli agenti, indicando il corpo accasciato a terra, ermeticamente chiuso in un sacco. “Non bene, però i gemelli sono famosi per le loro malefatte” rispose uno di loro. “Non sarà facile trovare l’assassino, perché i signori in questione non godono di buona reputazione e chiunque in paese desiderava vederli morti”. “Gemelli?” domandò Steve. “Sì, sono i fratelli Jackson!” rispose l’agente. “Bene, bene! Allora partiamo con lo interrogare il fratello!”.

 

“Quali notizie mi portate?” Steve guardò i suoi agenti migliori, sperando in qualche buon risultato. Johnson e un collega erano andati a far visita a Taylor Jackson, per comunicargli la notizia della morte del fratello, per il momento, riportandola come a seguito di un suicidio. Johnson, che arrivava sempre a conclusioni affrettate, spiegò all’ispettore la freddezza, anzi, l’euforia che aveva suscitato quella notizia. “La sua reazione è stata:’Morto? Davvero? Mi ha risparmiato un sacco di fatica! È la cosa migliore che mi sia mai capitata negli ultimi tempi!’. Le sembra normale? Taylor sembrava eccitato, compiaciuto e comunque, per niente sorpreso. Sono sicuro che sia stato lui!”. Steve, con la sua consueta flemmatica presunzione, intervenne smorzando la smania di vittoria dell’agente: “Johnson, Johnson, quando imparerai? Niente è quel che sembra, fino a prova concreta. Mentre voi due eravate a parlare col signore in questione, io ho raccolto qualche informazione sulla vittima. Si chiamava Tom Jackson e aveva parecchi precedenti penali. Avrebbe dovuto scontare almeno cinque anni di carcere per frode e furto. Lo attendevano in tribunale per l’udienza finale entro fine mese. Maniaco dell’ordine e della pulizia in casa, ma ambiguo e caotico nella vita privata, non aveva amici. Il medico legale ha scoperto che la causa del decesso è stata una forte emorragia interna dovuta a una profonda frattura nel cranio. Nel taschino della camicia è stato trovato il suo tesserino di riconoscimento e la firma sul biglietto di scuse non corrisponde a quella sul documento. L’analisi della calligrafia ha confermato che chi ha scritto ‘Perdonami, tuo fratello T’ non fosse mancino, mentre Tom lo era. In questo momento stanno analizzando le impronte sulla corda e sullo scontrino: vedremo cos’altro emerge”. Steve stava esponendo tutte le nozioni in suo possesso, stilando uno strano elenco riepilogativo sulla lavagnetta magnetica appesa dietro la scrivania. Un uomo sulla cinquantina comparve improvvisamente, attirando la sua attenzione. “Signore, abbiamo il primo testimone per il suo caso. Sembra che il ‘suicida’ se la facesse con la moglie del fratello e che ieri sera, poco prima di cena, i due abbiamo avuto una forte discussione a suon di pugni e calci davanti al bar del paese”. Era il movente che cercava: caso risolto!

 

“Signor Taylor, si rende conto vero che la sua posizione si sta aggravando? Le consiglio di chiamare un avvocato: sullo scontrino e sulla corda sono state trovate tracce di DNA compatibili con le sue”. Steve si aggirava attorno al tavolo dell’interrogatorio, con fare circospetto. Tutte le prove portavano al sospettato principale come autore del delitto. Adesso doveva solo tentare di inchiodarlo, strappandogli una confessione. “Ovviamente: siamo gemelli omozigoti! Quel DNA potrebbe essere di Tom. Anche un imbecille sa che in questi casi il DNA è identico!”. Il tizio sapeva il fatto suo. “Detesto Tom da quando siamo nati, ma questo non significa che l’abbia ammazzato. Non le nego che lo avrei fatto volentieri”. Steve tentò immediatamente il contraccolpo: “Le ricordo che tutto quello che dice potrebbe essere usato contro di lei in tribunale!”. Ancora un paio di affermazioni così ed era fatta! “Se la spassava con mia moglie alle mie spalle! Vuol dirmi che lei non si sarebbe arrabbiato?”. Un’altra occasione per l’affondo: “Per questo ha deciso di ucciderlo? Era così arrabbiato che l’ha finito a forza di pugni?”. Taylor era un duro e non sarebbe stato semplice metterlo all’angolo. “Sì, l’ho preso a calci nel sedere, ma non l’ho ammazzato” disse senza tradire emozioni particolari nella voce. Era necessario un assalto. “Le dico io come sono andate le cose: era così arrabbiato che ha deciso di tornare a casa sua quella sera. L’ha tramortito di botte e, forse accidentalmente, Tom è caduto sul tavolino in cristallo, fracassandosi il cranio. A quel punto si è reso conto di aver combinato un bel guaio. Ha preso la macchina ed è andato da Jump a comprare la corda. Ha trascinato il corpo al piano superiore e ha inscenato una bella impiccagione. Poi ha scritto un biglietto di scuse, adagiandolo sulla consolle dell’ingresso, in modo che fosse facilmente reperibile, e ha ripulito tutto, buttando i frantumi di cristallo nei sacchi, sapendo che l’indomani sarebbe passato il camion della raccolta. Non si aspettava però che un poliziotto avrebbe suonato a quest’indirizzo, per notificare l’avviso di presentazione al processo imminente e, trovando la porta socchiusa, avrebbe scoperto tutto prima del passaggio del furgone dei rifiuti. Inoltre, ha commesso alcuni errori: ha dimenticato gli stivali a casa di Tom; ha usato un suo paio di scarpe, che sono state rinvenute nella sua tenuta; ha buttato lo scontrino nel cestino dei rifiuti appena svuotato e ha falsificato in malo modo la calligrafia di suo fratello, che a differenza sua era mancino”. Taylor aveva il furore negli occhi: quel tizio aveva scommesso sulla sua colpevolezza. Sapeva come andavano certe cose: aveva già sperimentato la prigione e qualsiasi buon avvocato gli avrebbe consigliato di patteggiare. Steve, dal lato suo, gli stava leggendo nella mente. Aveva visto centinaia di sguardi come quello: era il momento di tentare il tutto per tutto: “Se decide di confessare, nessuno potrà esentarla dal carcere. D’altro canto, se mostra pentimento e confessa, l’uccisione di suo fratello potrebbe essere facilmente ricondotta a un incidente, e, con l’aiuto di un buon avvocato, potrebbe ottenere uno sconto di pena”. Taylor rimuginava, folle di rabbia. “Avete sufficienti prove per incastrarmi, vero?”. Steve annuì silenziosamente. “Ok! Chiamatemi un avvocato!”. Taylor non aveva scelta. “È un’ammissione di colpa?” insistette Steve. “Non mi servirà a nulla ammetterlo, perché voi avete già deciso che sono colpevole! Che possa l’anima di mio fratello bruciare all’inferno!”. Steve guardò oltre il vetro della stanza, dove, in un’altra sala, un gruppo di agenti stavano osservando tutta la scena. Immaginando di meritare lodi e complimenti per il suo operato, si gonfiò il petto e rivolse al gruppo occhiate di gloria. Aveva portato a termine con successo l’ennesimo interrogatorio: onore all’ispettore Steve!

 

Sollevando la propria tazzina di caffè verso Johnson, in segno di brindisi per la vittoria, Steve dette inizio al festeggiamento: “Caso chiuso! Visto, Johnson? Niente è mai quel che sembra! Fortunatamente sono dotato di un’intelligenza superiore alla media altrimenti, a quest’ora, questo caso sarebbe stato privo di risoluzione. Solo la realtà supera la fantasia: chi potrebbe mai immaginare che un uomo uccida il proprio fratello gemello?”. Questa volta l’agente era d‘accordo col capo. “È terribilmente vero quello che ha appena detto, Steve!” ammise. “Che c’è di così terribile? Che sono dotato di un’intelligenza superiore è noto: lo provano i numerosi test cui mi sono sottoposto!” rispose contrariato l’ispettore. Johnson allungò gli occhi verso quell’uomo: la sua arroganza sembrava non trovare fine! “Intendevo per la seconda parte di quello che ha detto! Poveri genitori: si rivolteranno nella tomba! Quella povera madre è morta di crepacuore, perché già sapeva che i suoi tre gemelli avrebbero avuto una vita miserabile!”. Steve sputò il caffè che gli stava andando di traverso e si alzò con uno scatto repentino. “Scusa, hai detto TRE?” chiese, incredulo. “Certo! Io non conoscevo bene la vittima, ma in paese tutti si ricordano il giorno della nascita delle tre T dei Jackson: Tom, Taylor e Timoty. Le peggiori canaglie che questo villaggio abbia mai visto! Timoty era perennemente ammalato, per via di una patologia che gli causava sanguinamenti continui e forti emorragie. Gli altri due lo riempivano continuamente di botte e, per evitare di compromettere seriamente la sua salute, fu affidato a una parente a Londra. Non si è più visto da allora. Qualcuno dice che sia sempre stato attanagliato dal senso di colpa, perché lo allontanarono dopo l’ennesimo litigio con i fratelli e, in seguito, la madre si ammalò gravemente e morì”. Steve divenne un fantasma. Pallido e pensieroso sembrava in preda a un attacco di cuore. Poi, senza aggiungere una parola, corse fuori dal locale, lasciando Johnson solo, davanti al suo caffè. Paralizzato di fronte all’ennesimo mistero irrisolto, l’agente fece spallucce. “Ragazzo!” chiamò il barista ad alta voce. “Il mio presuntuoso capo se n’è andato, quindi tieniti il caffè e fammi un drink come si deve!”.

 

Steve lesse e rilesse più volte tutti gli atti, le testimonianze, il resoconto dei fatti. Non c’era un solo indizio che potesse far pensare a un errore. Poi finalmente trovò quello che cercava. Anche Mary, la moglie di Taylor, aveva rilasciato la propria deposizione. Quando le era stato chiesto di descrivere la vittima, ostentando una sensualità decisamente fuori luogo, aveva risposto così: “Una vera canaglia, come piace a me! A letto era insuperabile: focoso, tenace, giocherellone… Ogni volta, prima di cominciare a divertirci, mi faceva giurare eterno amore sul suo nome. Non era un modo di dire: all’inguine aveva un tatuaggio col suo nome e i preliminari iniziavano con le mani messe lì…”. Steve corse all’obitorio, dove il corpo di Tom Jackson stava per essere cremato. Scostò rapidamente il lenzuolo e con gli occhi iniziò a percorrere ogni centimetro del pube e i suoi lati. Poi, per la prima volta nella sua vita, pianse.

 

A migliaia di chilometri di distanza, sperso nel cuore dell’oceano, su un’isola di cui non riusciva nemmeno a ricordare il nome, il terzo gemello si lasciò cadere sul letto, colto da improvvisa stanchezza, dopo gli affanni delle ultime ore. Rincasando, aveva trovato il fratello esanime a terra, in un cumulo di frammenti di cristallo e sangue. Era pieno di lividi, come se avesse appena disputato un torneo di pugilato. Probabilmente colto dall’ennesimo malore, era caduto, sbattendo la testa sul tavolino. Non respirava più: quel vigliacco si era lasciato morire così, lasciandogli un grattacapo che non desiderava. Ora si trovava a fare i conti con il disordine che aveva provocato, senza parlare del danno al tavolino! Non gli era mai importato niente del fratello e lo considerava un perfetto sconosciuto. Si era presentato a casa sua nel pomeriggio, dicendogli che la sua malattia stava peggiorando e che aveva un unico desiderio prima di morire: ricongiungersi ai suoi fratelli. Gli aveva persino dato un biglietto in busta chiusa e dentro, su un cartoncino simile a una pergamena, ci aveva scritto: “Perdonami, tuo fratello T”. Povero sciocco! Non aveva mai combinato un solo guaio in vita sua, a differenza di lui e Taylor, e adesso addirittura chiedeva perdono: per cosa? Le sue chiacchiere e i suoi modi gentili lo urtavano. Aveva preso la busta e l’aveva buttata sulla consolle dell’ingresso. Poi, gli aveva detto di tornare da dov’era venuto, perché non aveva bisogno delle sue scuse per vivere, tantomeno della sua presenza. Quindi era uscito sbattendo la porta, con la speranza di non trovare più quell’incapace al suo ritorno. Gli guardò il volto tumefatto, ancor più identico al suo, dopo il litigio con Taylor, ora che avevano lo stesso colore violaceo intorno all’occhio. La stessa somiglianza che aveva odiato per tutti quegli anni, adesso gli stava suggerendo un’idea, una vera e propria illuminazione. Se avesse inscenato la propria morte, utilizzando il corpo del fratello, si sarebbe potuto esentare dalla galera. Agì d’impulso. Gli mise nel taschino la sua tessera d’identità e lo trascinò al piano di sopra. Se avesse saputo dare il giusto risalto a quel gesto, il suo falso suicidio avrebbe suscitato scalpore e tutti ci avrebbero creduto. Doveva correre da Jump, il negozio di articoli sportivi aperto ventiquattro ore su ventiquattro, per comprare il materiale adatto alla messinscena. Costruita la commedia, era andato a casa di Taylor, per vedere Mary un’ultima volta. Passando dal cortile, aveva sporcato le scarpe di fango e, maniaco della pulizia qual era, non aveva resistito a rubare un paio di stivali puliti al fratello. Della cognata non c’era traccia, così era rincasato presto, con ai piedi gli stivali rubati, dimenticando le sue scarpe nella lavanderia di Taylor. Prese tutti i soldi che aveva in cassaforte e il passaporto del gemello: il nuovo Timoty Jackson aveva baffi e barba, ma nella fotografia la sua faccia era sorprendentemente riconoscibile. Prima che emergesse qualsiasi indizio che potesse incastrarlo, doveva andarsene, di corsa. Senza pensarci troppo, si era imbarcato sul primo aereo per il sud dell’America e poi aveva volato ancora, verso una meta sconosciuta al turismo e alla legge. Ora poteva finalmente considerarsi al sicuro e godersi per sempre la sua nuova identità. “Timoty Jackson! Una nuova vita! Un nuovo inizio! Me lo giocherò bene e fino in fondo, fratello!” sussurrò a se stesso, mentre una mano finì istintivamente alla sommità della tasca destra dei jeans. Sotto il tessuto, le dita calde e umide dell’uomo soffocavano la traccia indelebile di uno scomodo passato, proprio là, dove un tatuaggio a caratteri nobili campeggiava e tracciava in linee curve il suo originario ma già estinto nome: TOM.

Il ricco e il povero

Richard guardò oltre la porta a vetri del negozio e vide che l’auto del signor Henrito era parcheggiata al suo solito posto. Avrebbe atteso lì dentro ancora qualche minuto, prima di uscire col volto coperto e strappargli il telefonino che a lungo aveva agognato. L’uomo in questione era meticoloso e abitudinario: quattro minuti precisi e sarebbe salito in auto. Prima però avrebbe gettato un’occhiata alla finestra del suo appartamento, tirando con la mano un bacio a distanza alla finestra. Quel signore poteva permettersi qualsiasi lusso e dietro quella persiana socchiusa, sicuramente, si celava la sua giovane amante. La immaginava in pelliccia, vestita solo di gioielli appariscenti, ma prigioniera nel suo bel carcere dorato. Quell’uomo doveva essere così meschino e prepotente da costringerla in casa tutto il giorno, negandole qualsiasi possibilità di libertà, perché la voleva solo sua, schiava del suo potere. Meritava ciò che gli stava per accadere! Richard aveva deciso che sarebbe stato sua vittima, nell’esatto istante in cui lo aveva visto per la prima volta. Era successo due mesi prima, in un negozio di giocattoli. Richard si era recato là con i gemelli, per concedere un po’ di tranquillità a sua moglie. Quei due non avevano fatto altro che litigare per un pacchetto di figurine (l’unica cosa che lui si poteva permettere di comprare), bisticciando su chi le avrebbe scartate. Alla cassa il commerciante aveva salutato con un largo sorriso il signore in coda davanti a lui. “Buongiorno, signor Henrito! Cosa ha scelto oggi per la sua regina?” gli aveva chiesto, come se lo conoscesse da sempre. Dal portafogli erano sbucati più bigliettoni di quanti Richard ne avesse mai visti in vita sua. La sua giovanissima amante era un’appassionata di bambole costose, come la maggior parte delle poco più che adolescenti signore dell’alta società. Al polso sfoggiava un orologio delle dimensioni di un’albicocca, interamente d’oro. Abbigliato come se fosse appena uscito da una sartoria, sulla sua camicia non c’erano macchie di sugo o rigurgiti di neonato, come invece succedeva sempre a Richard. Un impeto d’ira nei confronti della propria sorte così ingiusta e impietosa s’impossessò di lui. Fu però quando suonò il cellulare che l’invidia per quell’uomo si trasformò in desiderio di vendetta, fermentando un proposito negativo nella mente. Dalla giacca che teneva accomodata su un braccio, sfilò il modello introvabile del giocattolino tecnologico più all’avanguardia che esistesse sul mercato. Conosceva alla perfezione il valore di quel gioiellino, perché quel medesimo pomeriggio ne aveva parlato con Tom, il ricettatore più popolare del suo quartiere. Proprio lui gli aveva rivelato di avere un acquirente pronto a sborsare una fortuna per quel telefono e ancora lui gli aveva confidato di essersi esposto, garantendogli che ne sarebbe stato il legittimo possessore entro breve tempo, pur non avendo nulla per le mani. Se fosse riuscito a sottrarglielo, avrebbe negoziato con Tom sul costo dell’affare, ricavandone una bella sommetta. Così erano partiti le sue ricerche, i suoi appostamenti e l’annotazione delle sue abitudini. Dal portiere del suo palazzo aveva saputo che il signor Henrito era gentile ma molto riservato. Richard però era certo che nell’agiatezza non ci fosse gratuità, che tutto avesse un costo e un prezzo: la sua non era gentilezza ma ipocrisia. Qualche vicino gli aveva svelato che si era trasferito lì da pochi mesi con una ragazza così giovane che poteva essere sua figlia. Usciva raramente dalla sua casa, solo per recarsi al lavoro, e rincasava sempre alla stessa ora, con un pacchetto diverso ogni giorno. Di mattino, puntualissimo usciva dalla portineria del palazzo, trenta secondi esatti di saluto alle persiane socchiuse e poi saliva sulla sua auto, parcheggiata nel viale di fronte al botteghino in cui si era rifugiato. Aveva studiato tutto nei minimi particolari. Meno dieci secondi: era giunto il momento! Mise il pugno nella tasca dei pantaloni, simulando una pistola nascosta e, sollevando il cappuccio della giacca per coprire la fronte e gli occhi, uscì rapidamente, senza che il negoziante potesse fermarlo. Non disse niente. Approfittando del saluto a distanza all’amante misteriosa con la mano libera afferrò il braccio dell’uomo e scrollandolo, gli sfilò dalla giacca il cellulare. Senza esitare attraversò velocemente la strada, sgattaiolò dentro una via buia e stretta, scese la scalinata della metropolitana, scavalcò il tornello con un balzo e, repentino, montò sul primo treno in partenza. Non sentì grida di aiuto o al ladro inveite contro di sé, forse perché si era fatto sordo per l’eccitazione e la concitazione del momento, o forse perché a quell’uomo non importava molto di perdere un telefono che valeva più di quanto Richard avesse mai guadagnato in anni di duro lavoro. Quando fu finalmente solo e tranquillo, abbassò il cappuccio. Era andato tutto liscio. Rilassò la mano nella tasca, ringraziando Dio che non fosse stato necessario simulare di possedere un’arma da fuoco, e guardò il piccolo tesoro che aveva appena rubato. Leggero e maneggevole, nonostante le dimensioni, era dotato di uno schermo di circa quindici centimetri ed era completamente privo di rigature e graffi, il che lo rendeva ancora più apprezzabile per il suo scopo. Velocemente disattivò ogni tipo di sicurezza sul dispositivo, così come gli aveva spiegato Tom, in modo che divenisse perfettamente irrintracciabile. Con soddisfazione lo ripose in tasca e tornò a casa.

Fu sua figlia maggiore ad aprirgli l’uscio. “Ciao, Shirley!” la salutò frettolosamente. Poi sgattaiolò nella sua camera, mentre i gemelli giocavano in cucina, dove sua moglie stava preparando il pranzo cullando tra le braccia la figlioletta di pochi mesi. Richard chiuse la porta della camera, per isolarsi momentaneamente e fare un bilancio degli eventi della giornata. Sapeva di non aver agito correttamente. Non era sua consuetudine rubare ma in qualche modo doveva pur provvedere al mantenimento della sua famiglia. Se la natura non lo aveva creato ricco, il destino lo aveva addirittura umiliato, burlandosi di lui: prima gli aveva offerto un impiego duro per pochi soldi e poi glielo aveva sottratto, con un licenziamento per esubero di personale. Aver rubato a un ricco prepotente e viziato lo faceva sentire come se avesse appena segnato gol all’ultima partita di un campionato importante: questa volta era stato lui a farsi beffa del destino, pareggiando in parte i conti tra povertà e ricchezza. Riprese il dispositivo tra le mani e cedette alla tentazione di provarlo. Incappò immediatamente nella galleria fotografica. Non c’erano molte immagini immortalate lì dentro. Le prime foto erano state scattate in quello che doveva essere il suo appartamento subito dopo il trasferimento. Soltanto la sala era più estesa dell’intero barrio dove viveva lui. Un lungo tavolo con almeno una decina di sedute era stato posto al centro, mentre sul fondo s’intravedeva un divano bianco, angolare, che appariva infinito. L’argenteria era ovunque: sul tavolo, sulla credenza adiacente alla parete opposta a quella in cui si vedeva il divano, appesa come accessorio d’arredo sulle mensole decorative. Quella stanza diceva tutto di quell’uomo: una persona eccentrica, precisa, fredda e boriosa, come tutta la gente del suo rango. Scorse l’indice sullo schermo. Stavolta aveva ripreso se stesso in un breve video in cui a labbra socchiuse diceva: “Ti voglio tanto bene”, seguito da un bacio diretto alla fotocamera. Ipocrita e falso! Che ne poteva sapere dell’affetto vero uno che può comprarsi tutto quello che vuole? La voce della figlia lo chiamò ricordandogli che il pranzo era pronto. Aprì la porta della camera e gettò rapidamente un’occhiata oltre la soglia. Sua moglie stava imboccando le due piccole canaglie dall’aspetto identico, mentre Shirley si stava occupando della piccolina, cantandole la sua ninna nanna preferita. Un sorriso gli illuminò il volto. Prima di aggregarsi al resto della famiglia, decise di vedere l’ultimo video che l’avaro signor Henrito aveva registrato nel dispositivo. Dall’inquadratura dell’appartamento sbucò il volto di una ragazzina dell’età di sua figlia. Completamente calva, con gli occhi infossati nel volto pallido e interamente privo di peluria, aveva l’aria stanca e lo sguardo spento e inerte di chi sta soffrendo da molto tempo. Visibilmente provata, con la voce interrotta dai respiri affannosi, si nascondeva il viso con le mani. “Ti prego, papà, non riprendermi” chiedeva incerta, sorridendo. “Perché non dovrei? Sei la mia regina!” gli rispondeva la voce profonda del signor Henrito. La ragazzina allora toglieva le dita magre dal volto smunto e spigoloso, come se non avesse desiderato altro. “Sono bella così?” chiedeva, scimmiottando un atteggiamento sexy e provocante, mettendo in risalto la sua eccessiva magrezza. “Sei sempre bellissima! Sono tutti invidiosi qui sotto, quando ti mando i miei baci prima di andare al lavoro!” dichiarava lui, continuando a riprenderla. “Continueranno a essere invidiosi tra qualche giorno, quando non ci sarò più?” lo interrogò lei, facendosi triste, mentre la tosse irrompeva prepotente, costringendola a chinarsi sul letto cosparso di bambole. Il video terminava all’improvviso, con l’immagine trascinata a terra e interrotta. Richard impallidì. Con uno scatto fulmineo corse nel bagno a lavarsi ripetutamente le mani, senza riuscire a sentirsi pulito. Si fissò nello specchio, provando vergogna per la figura che vedeva riflessa. La situazione si era ribaltata: il signor Henrito non era arrogante e meschino e Richard si sentiva immensamente stupido. Il suo senso del giudizio aveva fallito miseramente: la natura gli aveva dato molto più di quanto avesse creduto. Doveva rimediare. S’infilò il giubbetto con cui aveva compiuto il colpo e uscì dalla sua stanza. Guardò a lungo i suoi figli che giocavano sereni, trasformando dei piccoli pezzi di carta in coriandoli e lanciandoli in aria, per la fantastica conquista di un castello immaginario. Poi osservò le figlie: la piccola, addormentata con il ciuccio in bocca e la testa abbandonata sulle braccia della più grande. Raggiunse Shirley, la abbracciò con forza e la baciò dolcemente sul capo, pago per la gioia di averla lì con sé e compiaciuto per il suo volto tondo e i suoi occhi vispi. Lei lo guardò sorpresa, ma contraccambiò l’abbraccio. Infine esaminò sua moglie, sempre bellissima, nonostante le curve più morbide e burrose dovute alle gravidanze. Per un attimo incrociò il suo sguardo e amorevolmente lei gli sorrise, invitandolo a prendere posto al tavolo. Richard però si congedò a gesti, indicando che sarebbe tornato subito.

A volto scoperto, senza nascondersi si presentò davanti all’uomo a cui aveva sottratto il telefono, nel suo ufficio, proprio nel luogo dove lavorava. Il signor Henrito lo guardò e lo riconobbe come il ladro del mattino, ma non proferì parola. In silenzio Richard restituì l’oggetto che teneva tra le mani. Il signor Henrito lo scrutò a fondo. Poi, sprofondando nella sedia dietro la scrivania, lo interrogò: “Perché?”. “Perché ho sbagliato”, rispose Richard, riassumendo in quella frase sia il motivo del furto sia quello della restituzione. “Come sa che non la denuncerò?” insistette il derubato, cercando di provocare la reazione nel ladro. “Non lo so, ma sono disposto ad assumermi le mie responsabilità” rispose Richard con semplicità. Un silenzio carico di tensione invase l’ufficio. “Un errore è concesso a tutti” disse quasi sottovoce, ma con tono deciso.  “Le offro la possibilità di ricominciare: ne faccia un buon uso!” risolse poi, sorprendendolo. Per Richard fu la conferma di quanto si fosse equivocato nel giudicare quell’uomo. Senza aggiungere altro, si alzò, con le spalle chine, sentendosi ancora più colpevole di quanto non lo fosse stato entrando, e prese la direzione della porta di uscita. “Ha figli?” lo interpellò ancora una volta, prima di lasciarlo andare. “Sì. Quattro” rispose, ripensando ai coriandoli lanciati in aria dai gemelli, alla dolce nanna della piccolina e al vigoroso abbraccio di Shirley. Poi, mosso da compassione per quell’uomo gentile, come se in quel modo potesse esprimergli il suo rincrescimento, aggiunse: “La maggiore ha l’età della sua”.  Il signor Henrito cambiò espressione. Deglutì a fatica, strabuzzando gli occhi: qualcuno conosceva il suo segreto e forse anche la sua pena.  Sul suo volto allora si palesò una domanda e Richard confermò col capo: sì, aveva visto il video; sì, era dispiaciuto e sì, si rammaricava della triste sorte che gli era capitata. Nessuno dei due disse altro per qualche secondo: non c’erano parole abbastanza potenti da esprimere la sofferenza e nemmeno tanto poderose per riuscire ad alleviarla. “Allora saprà quanto è fortunato!” concluse con voce tremante il povero signor Henrito. Richard annuì silente, poi richiuse la porta alle sue spalle. Era davvero fortunato: ora sapeva di essere l’uomo più ricco del mondo.