Radio, televisione, giornali, internet. Ogni giorno siamo bombardati di notizie: guerre, fatti di cronaca, politica. Persino il pettegolezzo merita un posto d’onore nel palinsesto. Ma siamo davvero sicuri che tutte le informazioni che ci arrivano dal mondo corrispondano a verità? Certamente, con i nuovi mezzi di comunicazione che la tecnologia ci ha messo a disposizione, è difficile che qualcosa sfugga a un occhio indiscreto senza avere un fondo di verità. Ma allo stesso tempo un dato può essere pilotato, gonfiato, smontato, distorto o persino rovesciato. Lo si fa da sempre, non è una novità. L’abbiamo fatto tutti! Fin da piccoli, quando dovevamo avvisare i nostri genitori di un brutto voto a scuola e ci sottraevamo alla nostra responsabilità, facendola ricadere sull’insegnante, che ce l’aveva a morte con noi. Vi è mai capitato di aggiungere un particolare al pettegolezzo di condominio, certi del fatto che qualcuno ve l’aveva detto e, invece, si trattava di un semplice fraintendimento, ma ormai la vostra aggiunta ha preso fondamento nella catena di Sant’Antonio del palazzo ed è diventata parte del racconto originario? Se chi si occupa di informazione non partecipa in prima persona ai fatti esposti, ma si esprime ‘per sentito dire’, chissà quale quantità di fraintendimenti una notizia potrebbe recare con sé. Non solo: chi decide l’ordine di importanza delle notizie? Quali e quanti interessi nasconde il retroscena di un palinsesto? A parità di rilevanza, quale fatto di cronaca ha la precedenza? Quello accaduto su territorio nazionale sicuramente, ma poi? Perché alcune mattanze internazionali non hanno diritto di menzione in un notiziario, mentre ad altre viene data un’eco mediatica insistente? E quando si tratta di eventi storici, che potrebbero avere un impatto positivo sul pubblico, ispirando speranza e buoni sentimenti, che parametri devono possedere per rientrare almeno nei titoli di coda? È trascorso un mese preciso da allora. Ho atteso pazientemente che qualcuno ne facesse menzione, ma i nostri tg non se ne sono occupati. Le uniche testimonianze in italiano sono arrivate da sedicenti giornalisti esperti in diritto internazionale, che hanno dato voce alle incredibili bugie che il governo venezuelano ha architettato, per evitare che la giornata di cui in oggetto avesse larga visibilità mediatica. Censure e corruzione hanno fatto il resto. Il risultato è stato che, a parte i paesi del latino-America, che hanno definito la ‘toma de Caracas’ (la presa di Caracas) la seconda marcia più estesa del pianeta per numero di partecipanti, paragonando questa lotta alle battaglie pacifiche di Gandhi, il resto del mondo non ne ha ricevuto notizia. Soprattutto per questo, voglio rompere il silenzio: perché questo paese non merita una simile umiliazione. L’uno di settembre, in Venezuela, la marcia pacifica di una moltitudine impressionante di persone ha sfilato per le vie di Caracas, la capitale, solo per chiedere al regime dell’attuale presidente in carica, l’attivazione del ‘revocatorio’, praticamente le sue dimissioni. Vi chiederete cosa c’è di così rilevante in questo. Bene, avete mai visto sfilare per le strade di Roma un milione di persone, chiedendo pace e giustizia per il proprio paese? UN MILIONE. Gente straziata dalla miseria e dalla crescente mancanza di sicurezza che da ogni parte del paese si è messa in marcia per giorni, per raggiungere la capitale. Uomini e donne, giovani e anziani, persino i malati sulle loro carrozzine hanno viaggiato per chilometri pur di prendere parte a questa manifestazione. Chi non ha potuto raggiungere Caracas, ha marciato per le strade della propria città. Un fiume di persone, migliaia di volti segnati dalla stanchezza e dalla fame, ma col cuore e gli occhi colmi di speranza. Mani asciutte e disidratate che brandivano fiere il bastone della propria bandiera nazionale con la voce rotta dall’emozione, chiedendo pace e libertà. Libertà. Solo vivendo a Margarita ho scoperto la vibrazione più profonda che questa parola sa produrre nell’anima. È un sentimento che sviscera prepotente da dentro, che accalda lo spirito e che ti brucia nel petto, rischiando di soffocarti, fino a quando non vomiti nell’aria quell’unico termine che concentra in sé il suono primordiale della passione: “LIBERTÁ”. Sono trascorsi secoli e per noi quel vocabolo non ha più la stessa importanza, ma ci sono popoli che ancora lottano per il diritto alla scelta. Sapete cosa significa recarsi al supermercato e trovare i bancali vuoti? Fare interminabili code per poter comprare un kilo di farina e due rotoli di carta igienica ogni quindici giorni? Correre da una farmacia all’altra alla ricerca di una banale tachipirina, sapendo che tuo figlio rischia la polmonite e l’unico modo per curarlo saranno le tue preghiere? Andare al lavoro e non sapere se farai ritorno, perché il livello di delinquenza è tale che ogni giorno rischi la vita uscendo di casa? Aver paura di parlare e chiedere giustizia, perché il potere militare è dalla parte del governo e con le minacce e le armi può metterti a tacere per sempre? È la dittatura di un governo che si fa chiamare democratico e invece ti costringe al silenzio, che fa divampare il fuoco del desiderio di un cambiamento. Io lo so. Ci ho vissuto. Non c’è niente di più autentico della smania di chi, stremato, urla la propria disperazione e implora l’uscita dal baratro. Chiedo libertà per il mio amato Venezuela, ma soprattutto chiedo la verità di un’informazione che ci viene costantemente negata. Perché quella gente non può farcela da sola. Serve il nostro aiuto. E inizia semplicemente da qui: coscienza e conoscenza. Per ora può bastare.