“Abbiamo trovato questa, signore”. L’agente Johnson consegnò una busta all’ispettore capo e Steve la aprì e ne lesse rapidamente il contenuto. “Sembra un biglietto d’addio” si pronunciò infine. “Anche questo elemento è compatibile con il suicidio”. Johnson lo guardò perplesso e non riuscì a trattenersi: “Solo compatibile? Questo è chiaramente un caso di suicidio!”. “Agente, niente è mai come sembra!” lo contraddisse Steve.“L’ipotesi più semplice solitamente è quella esatta!” ribatté Johnson, scimmiottando il tono grave della voce dell’ispettore. “Chi dice cose così intelligenti?” sorrise Steve, con lo sguardo sospeso nel vuoto, come incantato dal passaggio di una dea. “Sono parole sue, capo!” rispose Johnson, cercando il beneplacito del suo superiore. “A volte mi stupisco di me stesso, però è sempre meglio non dar nulla per scontato!” concluse. L’agente assentì silenziosamente e girò sui tacchi in direzione del ritrovamento, lasciandosi scappare un involontario sollevamento degli occhi in direzione del cielo. Il cadavere di un uomo giaceva sospeso a mezz’aria, tenuto per il collo da una corda annodata saldamente alla balaustra, in un’atmosfera surreale, in cui l’orrore di un gesto dettato dalla disperazione si univa all’irriverente freddezza degli agenti, i quali comunicavano tra loro a suon di battute di spirito. Steve contemplava la scena, cercando di dare un senso alla vocina che, nel profondo, gli diceva che qualcosa non andava. La richiesta di perdono, come ultimo atto d’addio, aveva fatto propendere l’ago della bilancia verso il suicidio, ma c’era un non so che di plateale in quella scena: pareva il set cinematografico del suicidio perfetto. Perché un uomo disperato aveva lucidato la propria dimora fino a eliminare l’ultimo granello di polvere? Quella casa sembrava essere appena uscita da qualche patinata rivista d’arredamento: troppo pulito, troppa cura per i dettagli, troppa attenzione all’ordine per un depresso cronico compulsivo che desidera ardentemente di farla finita. Uno che intende uccidersi perché dovrebbe preparare i sacchi dell’immondizia sul vialetto antistante, pronti per la raccolta differenziata dell’indomani? In quei rifiuti potevano esserci degli indizi utili e, probabilmente, anche nei cestini di casa si sarebbe potuto trovare qualcosa d’interessante, se non fossero stati sistematicamente svuotati, tranne che… “Chiamate il medico legale: voglio anche una sua perizia!” si pronunciò infine, ammutolendo gli agenti che lo guardarono contemporaneamente, alla ricerca di risposte, mentre lui sfoggiava tra le dita un pezzo di carta, come fosse il trofeo di un importante torneo sportivo. Johnson, che dei quattro era quello col quale aveva maggior confidenza, azzardò un’obiezione: “Capo, è chiaramente un suicidio. Non ci sono elementi per definirlo in maniera diversa…”. Steve lo interruppe, con tono bonario ma perentorio: “Uno scontrino battuto quattro ore fa, in un negozio a quaranta chilometri da qui, per l’acquisto di una corda per scalatori, in un cestino vuoto, ti sembra un buon elemento da cui cominciare?”. Johnson, non capiva e lo diede chiaramente a vedere. “Agente Johnson, se volessi suicidarti, andresti a comprare una corda nuova dieci minuti prima di buttarti nel vuoto, guidando con lucidità per quaranta chilometri, tornare e pulire casa prima di toglierti la vita? A me suona alquanto strano”. Strabuzzando gli occhi, Johnson prese lo scontrino dalle mani dell’ispettore, per visionarlo meglio. “Non l’avevamo notato… ” replicò l’agente deluso. “Ecco perché sono il capo: perché sono il migliore!” rispose Steve compiaciuto di sé, mentre gli altri lo guardavano costernati, a metà tra lo stupore e il disgusto per il suo narcisismo.
“Il cadavere presenta un’evidente escoriazione a livello del collo; qualche ecchimosi sulla parte destra del volto e un vasto ematoma in prossimità dell’orbita oculare; numerose contusioni sul corpo… Signore!”. Il medico legale chiamò l’ispettore. “Chiamami Steve, ti prego! Sono sicuro che anche Michelangelo si facesse chiamare per nome ai suoi tempi!”. Il medico lo guardò visibilmente confuso, poi, scrollando il capo come per liberarsi da strani dubbi, espresse il frutto della propria analisi. “Signor Steve, se quest’uomo si è suicidato, io posso fare la controfigura di Brad Pitt!” affermò. “Ero certo di poter confidare in te, Spencer” disse, prendendo tra le mani il cartellino identificativo dell’uomo. “Hai già formulato qualche ipotesi?”. Steve lo osservò irrequieto, con l’impazienza di un bambino che attende il finale della sua fiaba preferita. “È ancora molto presto per dire con certezza quello che è successo qui, ma sicuramente quest’uomo era già morto prima di tentare il suicidio”. Steve protrasse il busto completamente nella direzione del medico legale, rapito dalle sue parole. “Un morto non può suicidarsi!” costatò con sorpresa. “Qualcuno però può aver tentato di simulare un suicidio per nascondere qualcos’altro…Un omicidio, per esempio! …Interessante… Cos’hai trovato a sostegno della tua tesi?” chiese. “Tutto troverà conferma dopo l’autopsia, però quest’uomo sembra sia morto per i traumi ricevuti, probabilmente a seguito di una caduta…” illustrò Spencer. “… O di una colluttazione?” propose l’ispettore. “Forse! Qualcuno ha comprato questa corda in un negozio della città qui vicina esattamente questa notte, come dimostra lo scontrino che avete trovato…”. Steve lo interruppe, ostentatamente impettito. “…Che HO trovato!” precisò, per niente sarcastico, provocando una smorfia nel suo interlocutore. “Quest’uomo è stato trascinato a peso morto su questa scala e legato, con un nodo così stretto che sarebbe soffocato prima di potersi lanciare da lassù. Non sarà difficile trovare le impronte del probabile assassino” spiegò. “Ok, grazie, Spencer. T’invio il corpo per l’autopsia” replicò l’ispettore, congedandolo con una forte stretta di mano e una pacca sulla spalla. Steve aveva per le mani un singolare caso di omicidio da risolvere e non si accorse della parolaccia proferita a mezz’aria dall’uomo nella sua direzione. Quello cui pensava, era prima di tutto la necessità di ricostruire gli ultimi istanti della vittima e di interpellare i parenti più prossimi e gli amici. “Qualcuno di voi per caso conosce quest’uomo?” chiese Steve agli agenti, indicando il corpo accasciato a terra, ermeticamente chiuso in un sacco. “Non bene, però i gemelli sono famosi per le loro malefatte” rispose uno di loro. “Non sarà facile trovare l’assassino, perché i signori in questione non godono di buona reputazione e chiunque in paese desiderava vederli morti”. “Gemelli?” domandò Steve. “Sì, sono i fratelli Jackson!” rispose l’agente. “Bene, bene! Allora partiamo con lo interrogare il fratello!”.
“Quali notizie mi portate?” Steve guardò i suoi agenti migliori, sperando in qualche buon risultato. Johnson e un collega erano andati a far visita a Taylor Jackson, per comunicargli la notizia della morte del fratello, per il momento, riportandola come a seguito di un suicidio. Johnson, che arrivava sempre a conclusioni affrettate, spiegò all’ispettore la freddezza, anzi, l’euforia che aveva suscitato quella notizia. “La sua reazione è stata:’Morto? Davvero? Mi ha risparmiato un sacco di fatica! È la cosa migliore che mi sia mai capitata negli ultimi tempi!’. Le sembra normale? Taylor sembrava eccitato, compiaciuto e comunque, per niente sorpreso. Sono sicuro che sia stato lui!”. Steve, con la sua consueta flemmatica presunzione, intervenne smorzando la smania di vittoria dell’agente: “Johnson, Johnson, quando imparerai? Niente è quel che sembra, fino a prova concreta. Mentre voi due eravate a parlare col signore in questione, io ho raccolto qualche informazione sulla vittima. Si chiamava Tom Jackson e aveva parecchi precedenti penali. Avrebbe dovuto scontare almeno cinque anni di carcere per frode e furto. Lo attendevano in tribunale per l’udienza finale entro fine mese. Maniaco dell’ordine e della pulizia in casa, ma ambiguo e caotico nella vita privata, non aveva amici. Il medico legale ha scoperto che la causa del decesso è stata una forte emorragia interna dovuta a una profonda frattura nel cranio. Nel taschino della camicia è stato trovato il suo tesserino di riconoscimento e la firma sul biglietto di scuse non corrisponde a quella sul documento. L’analisi della calligrafia ha confermato che chi ha scritto ‘Perdonami, tuo fratello T’ non fosse mancino, mentre Tom lo era. In questo momento stanno analizzando le impronte sulla corda e sullo scontrino: vedremo cos’altro emerge”. Steve stava esponendo tutte le nozioni in suo possesso, stilando uno strano elenco riepilogativo sulla lavagnetta magnetica appesa dietro la scrivania. Un uomo sulla cinquantina comparve improvvisamente, attirando la sua attenzione. “Signore, abbiamo il primo testimone per il suo caso. Sembra che il ‘suicida’ se la facesse con la moglie del fratello e che ieri sera, poco prima di cena, i due abbiamo avuto una forte discussione a suon di pugni e calci davanti al bar del paese”. Era il movente che cercava: caso risolto!
“Signor Taylor, si rende conto vero che la sua posizione si sta aggravando? Le consiglio di chiamare un avvocato: sullo scontrino e sulla corda sono state trovate tracce di DNA compatibili con le sue”. Steve si aggirava attorno al tavolo dell’interrogatorio, con fare circospetto. Tutte le prove portavano al sospettato principale come autore del delitto. Adesso doveva solo tentare di inchiodarlo, strappandogli una confessione. “Ovviamente: siamo gemelli omozigoti! Quel DNA potrebbe essere di Tom. Anche un imbecille sa che in questi casi il DNA è identico!”. Il tizio sapeva il fatto suo. “Detesto Tom da quando siamo nati, ma questo non significa che l’abbia ammazzato. Non le nego che lo avrei fatto volentieri”. Steve tentò immediatamente il contraccolpo: “Le ricordo che tutto quello che dice potrebbe essere usato contro di lei in tribunale!”. Ancora un paio di affermazioni così ed era fatta! “Se la spassava con mia moglie alle mie spalle! Vuol dirmi che lei non si sarebbe arrabbiato?”. Un’altra occasione per l’affondo: “Per questo ha deciso di ucciderlo? Era così arrabbiato che l’ha finito a forza di pugni?”. Taylor era un duro e non sarebbe stato semplice metterlo all’angolo. “Sì, l’ho preso a calci nel sedere, ma non l’ho ammazzato” disse senza tradire emozioni particolari nella voce. Era necessario un assalto. “Le dico io come sono andate le cose: era così arrabbiato che ha deciso di tornare a casa sua quella sera. L’ha tramortito di botte e, forse accidentalmente, Tom è caduto sul tavolino in cristallo, fracassandosi il cranio. A quel punto si è reso conto di aver combinato un bel guaio. Ha preso la macchina ed è andato da Jump a comprare la corda. Ha trascinato il corpo al piano superiore e ha inscenato una bella impiccagione. Poi ha scritto un biglietto di scuse, adagiandolo sulla consolle dell’ingresso, in modo che fosse facilmente reperibile, e ha ripulito tutto, buttando i frantumi di cristallo nei sacchi, sapendo che l’indomani sarebbe passato il camion della raccolta. Non si aspettava però che un poliziotto avrebbe suonato a quest’indirizzo, per notificare l’avviso di presentazione al processo imminente e, trovando la porta socchiusa, avrebbe scoperto tutto prima del passaggio del furgone dei rifiuti. Inoltre, ha commesso alcuni errori: ha dimenticato gli stivali a casa di Tom; ha usato un suo paio di scarpe, che sono state rinvenute nella sua tenuta; ha buttato lo scontrino nel cestino dei rifiuti appena svuotato e ha falsificato in malo modo la calligrafia di suo fratello, che a differenza sua era mancino”. Taylor aveva il furore negli occhi: quel tizio aveva scommesso sulla sua colpevolezza. Sapeva come andavano certe cose: aveva già sperimentato la prigione e qualsiasi buon avvocato gli avrebbe consigliato di patteggiare. Steve, dal lato suo, gli stava leggendo nella mente. Aveva visto centinaia di sguardi come quello: era il momento di tentare il tutto per tutto: “Se decide di confessare, nessuno potrà esentarla dal carcere. D’altro canto, se mostra pentimento e confessa, l’uccisione di suo fratello potrebbe essere facilmente ricondotta a un incidente, e, con l’aiuto di un buon avvocato, potrebbe ottenere uno sconto di pena”. Taylor rimuginava, folle di rabbia. “Avete sufficienti prove per incastrarmi, vero?”. Steve annuì silenziosamente. “Ok! Chiamatemi un avvocato!”. Taylor non aveva scelta. “È un’ammissione di colpa?” insistette Steve. “Non mi servirà a nulla ammetterlo, perché voi avete già deciso che sono colpevole! Che possa l’anima di mio fratello bruciare all’inferno!”. Steve guardò oltre il vetro della stanza, dove, in un’altra sala, un gruppo di agenti stavano osservando tutta la scena. Immaginando di meritare lodi e complimenti per il suo operato, si gonfiò il petto e rivolse al gruppo occhiate di gloria. Aveva portato a termine con successo l’ennesimo interrogatorio: onore all’ispettore Steve!
Sollevando la propria tazzina di caffè verso Johnson, in segno di brindisi per la vittoria, Steve dette inizio al festeggiamento: “Caso chiuso! Visto, Johnson? Niente è mai quel che sembra! Fortunatamente sono dotato di un’intelligenza superiore alla media altrimenti, a quest’ora, questo caso sarebbe stato privo di risoluzione. Solo la realtà supera la fantasia: chi potrebbe mai immaginare che un uomo uccida il proprio fratello gemello?”. Questa volta l’agente era d‘accordo col capo. “È terribilmente vero quello che ha appena detto, Steve!” ammise. “Che c’è di così terribile? Che sono dotato di un’intelligenza superiore è noto: lo provano i numerosi test cui mi sono sottoposto!” rispose contrariato l’ispettore. Johnson allungò gli occhi verso quell’uomo: la sua arroganza sembrava non trovare fine! “Intendevo per la seconda parte di quello che ha detto! Poveri genitori: si rivolteranno nella tomba! Quella povera madre è morta di crepacuore, perché già sapeva che i suoi tre gemelli avrebbero avuto una vita miserabile!”. Steve sputò il caffè che gli stava andando di traverso e si alzò con uno scatto repentino. “Scusa, hai detto TRE?” chiese, incredulo. “Certo! Io non conoscevo bene la vittima, ma in paese tutti si ricordano il giorno della nascita delle tre T dei Jackson: Tom, Taylor e Timoty. Le peggiori canaglie che questo villaggio abbia mai visto! Timoty era perennemente ammalato, per via di una patologia che gli causava sanguinamenti continui e forti emorragie. Gli altri due lo riempivano continuamente di botte e, per evitare di compromettere seriamente la sua salute, fu affidato a una parente a Londra. Non si è più visto da allora. Qualcuno dice che sia sempre stato attanagliato dal senso di colpa, perché lo allontanarono dopo l’ennesimo litigio con i fratelli e, in seguito, la madre si ammalò gravemente e morì”. Steve divenne un fantasma. Pallido e pensieroso sembrava in preda a un attacco di cuore. Poi, senza aggiungere una parola, corse fuori dal locale, lasciando Johnson solo, davanti al suo caffè. Paralizzato di fronte all’ennesimo mistero irrisolto, l’agente fece spallucce. “Ragazzo!” chiamò il barista ad alta voce. “Il mio presuntuoso capo se n’è andato, quindi tieniti il caffè e fammi un drink come si deve!”.
Steve lesse e rilesse più volte tutti gli atti, le testimonianze, il resoconto dei fatti. Non c’era un solo indizio che potesse far pensare a un errore. Poi finalmente trovò quello che cercava. Anche Mary, la moglie di Taylor, aveva rilasciato la propria deposizione. Quando le era stato chiesto di descrivere la vittima, ostentando una sensualità decisamente fuori luogo, aveva risposto così: “Una vera canaglia, come piace a me! A letto era insuperabile: focoso, tenace, giocherellone… Ogni volta, prima di cominciare a divertirci, mi faceva giurare eterno amore sul suo nome. Non era un modo di dire: all’inguine aveva un tatuaggio col suo nome e i preliminari iniziavano con le mani messe lì…”. Steve corse all’obitorio, dove il corpo di Tom Jackson stava per essere cremato. Scostò rapidamente il lenzuolo e con gli occhi iniziò a percorrere ogni centimetro del pube e i suoi lati. Poi, per la prima volta nella sua vita, pianse.
A migliaia di chilometri di distanza, sperso nel cuore dell’oceano, su un’isola di cui non riusciva nemmeno a ricordare il nome, il terzo gemello si lasciò cadere sul letto, colto da improvvisa stanchezza, dopo gli affanni delle ultime ore. Rincasando, aveva trovato il fratello esanime a terra, in un cumulo di frammenti di cristallo e sangue. Era pieno di lividi, come se avesse appena disputato un torneo di pugilato. Probabilmente colto dall’ennesimo malore, era caduto, sbattendo la testa sul tavolino. Non respirava più: quel vigliacco si era lasciato morire così, lasciandogli un grattacapo che non desiderava. Ora si trovava a fare i conti con il disordine che aveva provocato, senza parlare del danno al tavolino! Non gli era mai importato niente del fratello e lo considerava un perfetto sconosciuto. Si era presentato a casa sua nel pomeriggio, dicendogli che la sua malattia stava peggiorando e che aveva un unico desiderio prima di morire: ricongiungersi ai suoi fratelli. Gli aveva persino dato un biglietto in busta chiusa e dentro, su un cartoncino simile a una pergamena, ci aveva scritto: “Perdonami, tuo fratello T”. Povero sciocco! Non aveva mai combinato un solo guaio in vita sua, a differenza di lui e Taylor, e adesso addirittura chiedeva perdono: per cosa? Le sue chiacchiere e i suoi modi gentili lo urtavano. Aveva preso la busta e l’aveva buttata sulla consolle dell’ingresso. Poi, gli aveva detto di tornare da dov’era venuto, perché non aveva bisogno delle sue scuse per vivere, tantomeno della sua presenza. Quindi era uscito sbattendo la porta, con la speranza di non trovare più quell’incapace al suo ritorno. Gli guardò il volto tumefatto, ancor più identico al suo, dopo il litigio con Taylor, ora che avevano lo stesso colore violaceo intorno all’occhio. La stessa somiglianza che aveva odiato per tutti quegli anni, adesso gli stava suggerendo un’idea, una vera e propria illuminazione. Se avesse inscenato la propria morte, utilizzando il corpo del fratello, si sarebbe potuto esentare dalla galera. Agì d’impulso. Gli mise nel taschino la sua tessera d’identità e lo trascinò al piano di sopra. Se avesse saputo dare il giusto risalto a quel gesto, il suo falso suicidio avrebbe suscitato scalpore e tutti ci avrebbero creduto. Doveva correre da Jump, il negozio di articoli sportivi aperto ventiquattro ore su ventiquattro, per comprare il materiale adatto alla messinscena. Costruita la commedia, era andato a casa di Taylor, per vedere Mary un’ultima volta. Passando dal cortile, aveva sporcato le scarpe di fango e, maniaco della pulizia qual era, non aveva resistito a rubare un paio di stivali puliti al fratello. Della cognata non c’era traccia, così era rincasato presto, con ai piedi gli stivali rubati, dimenticando le sue scarpe nella lavanderia di Taylor. Prese tutti i soldi che aveva in cassaforte e il passaporto del gemello: il nuovo Timoty Jackson aveva baffi e barba, ma nella fotografia la sua faccia era sorprendentemente riconoscibile. Prima che emergesse qualsiasi indizio che potesse incastrarlo, doveva andarsene, di corsa. Senza pensarci troppo, si era imbarcato sul primo aereo per il sud dell’America e poi aveva volato ancora, verso una meta sconosciuta al turismo e alla legge. Ora poteva finalmente considerarsi al sicuro e godersi per sempre la sua nuova identità. “Timoty Jackson! Una nuova vita! Un nuovo inizio! Me lo giocherò bene e fino in fondo, fratello!” sussurrò a se stesso, mentre una mano finì istintivamente alla sommità della tasca destra dei jeans. Sotto il tessuto, le dita calde e umide dell’uomo soffocavano la traccia indelebile di uno scomodo passato, proprio là, dove un tatuaggio a caratteri nobili campeggiava e tracciava in linee curve il suo originario ma già estinto nome: TOM.