Archive for Febbraio 2016

El agua

La vita a Margarita si sta facendo difficile ultimamente. A causa di un fenomeno denominato El Niño, la siccità sta prorompendo in Venezuela e altri stati confinanti. Questo genera scarsità d’acqua nel continente, immaginate nelle isole! Sembra un controsenso che sia proprio l’acqua a mancare in una terra circondata dal mare, ma l’acqua salmastra non è potabile e noi non siamo pesci. A Margarita l’acqua arriva dalla terra ferma attraverso delle condutture sottomarine. Se viaggiate per l’isola non potranno non catturare la vostra attenzione tutti quei recipienti azzurri o verdi posti sulla sommità  dei tetti delle abitazioni. Sono i tanques de agua, raccoglitori di acqua pulita. Prima venivano riempiti quasi giornalmente, poi a giorni alterni, qualche mese fa due giorni a settimana e adesso, è notizia di due gironi fa, l’acqua arriverà ogni ventun giorni.  Sapete cosa vuol dire? Significa che bisogna usarla con molta parsimonia, a volte rinunciando a una doccia o limitando la pulizia di abiti e oggetti. Perfino negli hotel razionano l’acqua, causando disagio e nervosismo tra i turisti in visita sull’isola. Il problema però è grave, soprattutto per chi vive lontano dalle cittadine principali. La scarsità d’acqua innalza il livello di sporcizia, facilita la diffusione di malattie e, per la nostra bella Margarita, il tutto si traduce in forte preoccupazione. Che sia effetto del riscaldamento del pianeta o no, è meglio che teniate in seria considerazione quanto sia controproducente inquinare la Terra. Questo problema per ora affetta solo pochi stati, ma se fosse solo l’inizio di un fenomeno in lenta propagazione? La vita è davvero complicata senz’acqua, ma come ogni cosa che conta davvero, la diamo per scontata fino a quando la sua mancanza ci rivela la sua preziosità…

http://www.el-nacional.com/sociedad/Reportan-presencia-escabiosis-escasez-Margarita_0_799720144.html

Niente è quel che sembra

“Abbiamo trovato questa, signore”. L’agente Johnson consegnò una busta all’ispettore capo e Steve la aprì e ne lesse rapidamente il contenuto. “Sembra un biglietto d’addio” si pronunciò infine. “Anche questo elemento è compatibile con il suicidio”. Johnson lo guardò perplesso e non riuscì a trattenersi: “Solo compatibile? Questo è chiaramente un caso di suicidio!”. “Agente, niente è mai come sembra!” lo contraddisse Steve.“L’ipotesi più semplice solitamente è quella esatta!” ribatté Johnson, scimmiottando il tono grave della voce dell’ispettore. “Chi dice cose così intelligenti?” sorrise Steve, con lo sguardo sospeso nel vuoto, come incantato dal passaggio di una dea. “Sono parole sue, capo!” rispose Johnson, cercando il beneplacito del suo superiore. “A volte mi stupisco di me stesso, però è sempre meglio non dar nulla per scontato!” concluse. L’agente assentì silenziosamente e girò sui tacchi in direzione del ritrovamento, lasciandosi scappare un involontario sollevamento degli occhi in direzione del cielo. Il cadavere di un uomo giaceva sospeso a mezz’aria, tenuto per il collo da una corda annodata saldamente alla balaustra, in un’atmosfera surreale, in cui l’orrore di un gesto dettato dalla disperazione si univa all’irriverente freddezza degli agenti, i quali comunicavano tra loro a suon di battute di spirito. Steve contemplava la scena, cercando di dare un senso alla vocina che, nel profondo, gli diceva che qualcosa non andava. La richiesta di perdono, come ultimo atto d’addio, aveva fatto propendere l’ago della bilancia verso il suicidio, ma c’era un non so che di plateale in quella scena: pareva il set cinematografico del suicidio perfetto. Perché un uomo disperato aveva lucidato la propria dimora fino a eliminare l’ultimo granello di polvere? Quella casa sembrava essere appena uscita da qualche patinata rivista d’arredamento: troppo pulito, troppa cura per i dettagli, troppa attenzione all’ordine per un depresso cronico compulsivo che desidera ardentemente di farla finita. Uno che intende uccidersi perché dovrebbe preparare i sacchi dell’immondizia sul vialetto antistante, pronti per la raccolta differenziata dell’indomani? In quei rifiuti potevano esserci degli indizi utili e, probabilmente, anche nei cestini di casa si sarebbe potuto trovare qualcosa d’interessante, se non fossero stati sistematicamente svuotati, tranne che… “Chiamate il medico legale: voglio anche una sua perizia!” si pronunciò infine, ammutolendo gli agenti che lo guardarono contemporaneamente, alla ricerca di risposte, mentre lui sfoggiava tra le dita un pezzo di carta, come fosse il trofeo di un importante torneo sportivo. Johnson, che dei quattro era quello col quale aveva maggior confidenza, azzardò un’obiezione: “Capo, è chiaramente un suicidio. Non ci sono elementi per definirlo in maniera diversa…”. Steve lo interruppe, con tono bonario ma perentorio: “Uno scontrino battuto quattro ore fa, in un negozio a quaranta chilometri da qui, per l’acquisto di una corda per scalatori, in un cestino vuoto, ti sembra un buon elemento da cui cominciare?”. Johnson, non capiva e lo diede chiaramente a vedere. “Agente Johnson, se volessi suicidarti, andresti a comprare una corda nuova dieci minuti prima di buttarti nel vuoto, guidando con lucidità per quaranta chilometri, tornare e pulire casa prima di toglierti la vita? A me suona alquanto strano”. Strabuzzando gli occhi, Johnson prese lo scontrino dalle mani dell’ispettore, per visionarlo meglio. “Non l’avevamo notato… ” replicò l’agente deluso. “Ecco perché sono il capo: perché sono il migliore!” rispose Steve compiaciuto di sé, mentre gli altri lo guardavano costernati, a metà tra lo stupore e il disgusto per il suo narcisismo.

 

“Il cadavere presenta un’evidente escoriazione a livello del collo; qualche ecchimosi sulla parte destra del volto e un vasto ematoma in prossimità dell’orbita oculare; numerose contusioni sul corpo… Signore!”. Il medico legale chiamò l’ispettore. “Chiamami Steve, ti prego! Sono sicuro che anche Michelangelo si facesse chiamare per nome ai suoi tempi!”. Il medico lo guardò visibilmente confuso, poi, scrollando il capo come per liberarsi da strani dubbi, espresse il frutto della propria analisi. “Signor Steve, se quest’uomo si è suicidato, io posso fare la controfigura di Brad Pitt!” affermò. “Ero certo di poter confidare in te, Spencer” disse, prendendo tra le mani il cartellino identificativo dell’uomo. “Hai già formulato qualche ipotesi?”. Steve lo osservò irrequieto, con l’impazienza di un bambino che attende il finale della sua fiaba preferita. “È ancora molto presto per dire con certezza quello che è successo qui, ma sicuramente quest’uomo era già morto prima di tentare il suicidio”. Steve protrasse il busto completamente nella direzione del medico legale, rapito dalle sue parole. “Un morto non può suicidarsi!” costatò con sorpresa. “Qualcuno però può aver tentato di simulare un suicidio per nascondere qualcos’altro…Un omicidio, per esempio! …Interessante… Cos’hai trovato a sostegno della tua tesi?” chiese. “Tutto troverà conferma dopo l’autopsia, però quest’uomo sembra sia morto per i traumi ricevuti, probabilmente a seguito di una caduta…” illustrò Spencer. “… O di una colluttazione?” propose l’ispettore. “Forse! Qualcuno ha comprato questa corda in un negozio della città qui vicina esattamente questa notte, come dimostra lo scontrino che avete trovato…”. Steve lo interruppe, ostentatamente impettito. “…Che HO trovato!” precisò, per niente sarcastico, provocando una smorfia nel suo interlocutore. “Quest’uomo è stato trascinato a peso morto su questa scala e legato, con un nodo così stretto che sarebbe soffocato prima di potersi lanciare da lassù. Non sarà difficile trovare le impronte del probabile assassino” spiegò. “Ok, grazie, Spencer. T’invio il corpo per l’autopsia” replicò l’ispettore, congedandolo con una forte stretta di mano e una pacca sulla spalla. Steve aveva per le mani un singolare caso di omicidio da risolvere e non si accorse della parolaccia proferita a mezz’aria dall’uomo nella sua direzione. Quello cui pensava, era prima di tutto la necessità di ricostruire gli ultimi istanti della vittima e di interpellare i parenti più prossimi e gli amici. “Qualcuno di voi per caso conosce quest’uomo?” chiese Steve agli agenti, indicando il corpo accasciato a terra, ermeticamente chiuso in un sacco. “Non bene, però i gemelli sono famosi per le loro malefatte” rispose uno di loro. “Non sarà facile trovare l’assassino, perché i signori in questione non godono di buona reputazione e chiunque in paese desiderava vederli morti”. “Gemelli?” domandò Steve. “Sì, sono i fratelli Jackson!” rispose l’agente. “Bene, bene! Allora partiamo con lo interrogare il fratello!”.

 

“Quali notizie mi portate?” Steve guardò i suoi agenti migliori, sperando in qualche buon risultato. Johnson e un collega erano andati a far visita a Taylor Jackson, per comunicargli la notizia della morte del fratello, per il momento, riportandola come a seguito di un suicidio. Johnson, che arrivava sempre a conclusioni affrettate, spiegò all’ispettore la freddezza, anzi, l’euforia che aveva suscitato quella notizia. “La sua reazione è stata:’Morto? Davvero? Mi ha risparmiato un sacco di fatica! È la cosa migliore che mi sia mai capitata negli ultimi tempi!’. Le sembra normale? Taylor sembrava eccitato, compiaciuto e comunque, per niente sorpreso. Sono sicuro che sia stato lui!”. Steve, con la sua consueta flemmatica presunzione, intervenne smorzando la smania di vittoria dell’agente: “Johnson, Johnson, quando imparerai? Niente è quel che sembra, fino a prova concreta. Mentre voi due eravate a parlare col signore in questione, io ho raccolto qualche informazione sulla vittima. Si chiamava Tom Jackson e aveva parecchi precedenti penali. Avrebbe dovuto scontare almeno cinque anni di carcere per frode e furto. Lo attendevano in tribunale per l’udienza finale entro fine mese. Maniaco dell’ordine e della pulizia in casa, ma ambiguo e caotico nella vita privata, non aveva amici. Il medico legale ha scoperto che la causa del decesso è stata una forte emorragia interna dovuta a una profonda frattura nel cranio. Nel taschino della camicia è stato trovato il suo tesserino di riconoscimento e la firma sul biglietto di scuse non corrisponde a quella sul documento. L’analisi della calligrafia ha confermato che chi ha scritto ‘Perdonami, tuo fratello T’ non fosse mancino, mentre Tom lo era. In questo momento stanno analizzando le impronte sulla corda e sullo scontrino: vedremo cos’altro emerge”. Steve stava esponendo tutte le nozioni in suo possesso, stilando uno strano elenco riepilogativo sulla lavagnetta magnetica appesa dietro la scrivania. Un uomo sulla cinquantina comparve improvvisamente, attirando la sua attenzione. “Signore, abbiamo il primo testimone per il suo caso. Sembra che il ‘suicida’ se la facesse con la moglie del fratello e che ieri sera, poco prima di cena, i due abbiamo avuto una forte discussione a suon di pugni e calci davanti al bar del paese”. Era il movente che cercava: caso risolto!

 

“Signor Taylor, si rende conto vero che la sua posizione si sta aggravando? Le consiglio di chiamare un avvocato: sullo scontrino e sulla corda sono state trovate tracce di DNA compatibili con le sue”. Steve si aggirava attorno al tavolo dell’interrogatorio, con fare circospetto. Tutte le prove portavano al sospettato principale come autore del delitto. Adesso doveva solo tentare di inchiodarlo, strappandogli una confessione. “Ovviamente: siamo gemelli omozigoti! Quel DNA potrebbe essere di Tom. Anche un imbecille sa che in questi casi il DNA è identico!”. Il tizio sapeva il fatto suo. “Detesto Tom da quando siamo nati, ma questo non significa che l’abbia ammazzato. Non le nego che lo avrei fatto volentieri”. Steve tentò immediatamente il contraccolpo: “Le ricordo che tutto quello che dice potrebbe essere usato contro di lei in tribunale!”. Ancora un paio di affermazioni così ed era fatta! “Se la spassava con mia moglie alle mie spalle! Vuol dirmi che lei non si sarebbe arrabbiato?”. Un’altra occasione per l’affondo: “Per questo ha deciso di ucciderlo? Era così arrabbiato che l’ha finito a forza di pugni?”. Taylor era un duro e non sarebbe stato semplice metterlo all’angolo. “Sì, l’ho preso a calci nel sedere, ma non l’ho ammazzato” disse senza tradire emozioni particolari nella voce. Era necessario un assalto. “Le dico io come sono andate le cose: era così arrabbiato che ha deciso di tornare a casa sua quella sera. L’ha tramortito di botte e, forse accidentalmente, Tom è caduto sul tavolino in cristallo, fracassandosi il cranio. A quel punto si è reso conto di aver combinato un bel guaio. Ha preso la macchina ed è andato da Jump a comprare la corda. Ha trascinato il corpo al piano superiore e ha inscenato una bella impiccagione. Poi ha scritto un biglietto di scuse, adagiandolo sulla consolle dell’ingresso, in modo che fosse facilmente reperibile, e ha ripulito tutto, buttando i frantumi di cristallo nei sacchi, sapendo che l’indomani sarebbe passato il camion della raccolta. Non si aspettava però che un poliziotto avrebbe suonato a quest’indirizzo, per notificare l’avviso di presentazione al processo imminente e, trovando la porta socchiusa, avrebbe scoperto tutto prima del passaggio del furgone dei rifiuti. Inoltre, ha commesso alcuni errori: ha dimenticato gli stivali a casa di Tom; ha usato un suo paio di scarpe, che sono state rinvenute nella sua tenuta; ha buttato lo scontrino nel cestino dei rifiuti appena svuotato e ha falsificato in malo modo la calligrafia di suo fratello, che a differenza sua era mancino”. Taylor aveva il furore negli occhi: quel tizio aveva scommesso sulla sua colpevolezza. Sapeva come andavano certe cose: aveva già sperimentato la prigione e qualsiasi buon avvocato gli avrebbe consigliato di patteggiare. Steve, dal lato suo, gli stava leggendo nella mente. Aveva visto centinaia di sguardi come quello: era il momento di tentare il tutto per tutto: “Se decide di confessare, nessuno potrà esentarla dal carcere. D’altro canto, se mostra pentimento e confessa, l’uccisione di suo fratello potrebbe essere facilmente ricondotta a un incidente, e, con l’aiuto di un buon avvocato, potrebbe ottenere uno sconto di pena”. Taylor rimuginava, folle di rabbia. “Avete sufficienti prove per incastrarmi, vero?”. Steve annuì silenziosamente. “Ok! Chiamatemi un avvocato!”. Taylor non aveva scelta. “È un’ammissione di colpa?” insistette Steve. “Non mi servirà a nulla ammetterlo, perché voi avete già deciso che sono colpevole! Che possa l’anima di mio fratello bruciare all’inferno!”. Steve guardò oltre il vetro della stanza, dove, in un’altra sala, un gruppo di agenti stavano osservando tutta la scena. Immaginando di meritare lodi e complimenti per il suo operato, si gonfiò il petto e rivolse al gruppo occhiate di gloria. Aveva portato a termine con successo l’ennesimo interrogatorio: onore all’ispettore Steve!

 

Sollevando la propria tazzina di caffè verso Johnson, in segno di brindisi per la vittoria, Steve dette inizio al festeggiamento: “Caso chiuso! Visto, Johnson? Niente è mai quel che sembra! Fortunatamente sono dotato di un’intelligenza superiore alla media altrimenti, a quest’ora, questo caso sarebbe stato privo di risoluzione. Solo la realtà supera la fantasia: chi potrebbe mai immaginare che un uomo uccida il proprio fratello gemello?”. Questa volta l’agente era d‘accordo col capo. “È terribilmente vero quello che ha appena detto, Steve!” ammise. “Che c’è di così terribile? Che sono dotato di un’intelligenza superiore è noto: lo provano i numerosi test cui mi sono sottoposto!” rispose contrariato l’ispettore. Johnson allungò gli occhi verso quell’uomo: la sua arroganza sembrava non trovare fine! “Intendevo per la seconda parte di quello che ha detto! Poveri genitori: si rivolteranno nella tomba! Quella povera madre è morta di crepacuore, perché già sapeva che i suoi tre gemelli avrebbero avuto una vita miserabile!”. Steve sputò il caffè che gli stava andando di traverso e si alzò con uno scatto repentino. “Scusa, hai detto TRE?” chiese, incredulo. “Certo! Io non conoscevo bene la vittima, ma in paese tutti si ricordano il giorno della nascita delle tre T dei Jackson: Tom, Taylor e Timoty. Le peggiori canaglie che questo villaggio abbia mai visto! Timoty era perennemente ammalato, per via di una patologia che gli causava sanguinamenti continui e forti emorragie. Gli altri due lo riempivano continuamente di botte e, per evitare di compromettere seriamente la sua salute, fu affidato a una parente a Londra. Non si è più visto da allora. Qualcuno dice che sia sempre stato attanagliato dal senso di colpa, perché lo allontanarono dopo l’ennesimo litigio con i fratelli e, in seguito, la madre si ammalò gravemente e morì”. Steve divenne un fantasma. Pallido e pensieroso sembrava in preda a un attacco di cuore. Poi, senza aggiungere una parola, corse fuori dal locale, lasciando Johnson solo, davanti al suo caffè. Paralizzato di fronte all’ennesimo mistero irrisolto, l’agente fece spallucce. “Ragazzo!” chiamò il barista ad alta voce. “Il mio presuntuoso capo se n’è andato, quindi tieniti il caffè e fammi un drink come si deve!”.

 

Steve lesse e rilesse più volte tutti gli atti, le testimonianze, il resoconto dei fatti. Non c’era un solo indizio che potesse far pensare a un errore. Poi finalmente trovò quello che cercava. Anche Mary, la moglie di Taylor, aveva rilasciato la propria deposizione. Quando le era stato chiesto di descrivere la vittima, ostentando una sensualità decisamente fuori luogo, aveva risposto così: “Una vera canaglia, come piace a me! A letto era insuperabile: focoso, tenace, giocherellone… Ogni volta, prima di cominciare a divertirci, mi faceva giurare eterno amore sul suo nome. Non era un modo di dire: all’inguine aveva un tatuaggio col suo nome e i preliminari iniziavano con le mani messe lì…”. Steve corse all’obitorio, dove il corpo di Tom Jackson stava per essere cremato. Scostò rapidamente il lenzuolo e con gli occhi iniziò a percorrere ogni centimetro del pube e i suoi lati. Poi, per la prima volta nella sua vita, pianse.

 

A migliaia di chilometri di distanza, sperso nel cuore dell’oceano, su un’isola di cui non riusciva nemmeno a ricordare il nome, il terzo gemello si lasciò cadere sul letto, colto da improvvisa stanchezza, dopo gli affanni delle ultime ore. Rincasando, aveva trovato il fratello esanime a terra, in un cumulo di frammenti di cristallo e sangue. Era pieno di lividi, come se avesse appena disputato un torneo di pugilato. Probabilmente colto dall’ennesimo malore, era caduto, sbattendo la testa sul tavolino. Non respirava più: quel vigliacco si era lasciato morire così, lasciandogli un grattacapo che non desiderava. Ora si trovava a fare i conti con il disordine che aveva provocato, senza parlare del danno al tavolino! Non gli era mai importato niente del fratello e lo considerava un perfetto sconosciuto. Si era presentato a casa sua nel pomeriggio, dicendogli che la sua malattia stava peggiorando e che aveva un unico desiderio prima di morire: ricongiungersi ai suoi fratelli. Gli aveva persino dato un biglietto in busta chiusa e dentro, su un cartoncino simile a una pergamena, ci aveva scritto: “Perdonami, tuo fratello T”. Povero sciocco! Non aveva mai combinato un solo guaio in vita sua, a differenza di lui e Taylor, e adesso addirittura chiedeva perdono: per cosa? Le sue chiacchiere e i suoi modi gentili lo urtavano. Aveva preso la busta e l’aveva buttata sulla consolle dell’ingresso. Poi, gli aveva detto di tornare da dov’era venuto, perché non aveva bisogno delle sue scuse per vivere, tantomeno della sua presenza. Quindi era uscito sbattendo la porta, con la speranza di non trovare più quell’incapace al suo ritorno. Gli guardò il volto tumefatto, ancor più identico al suo, dopo il litigio con Taylor, ora che avevano lo stesso colore violaceo intorno all’occhio. La stessa somiglianza che aveva odiato per tutti quegli anni, adesso gli stava suggerendo un’idea, una vera e propria illuminazione. Se avesse inscenato la propria morte, utilizzando il corpo del fratello, si sarebbe potuto esentare dalla galera. Agì d’impulso. Gli mise nel taschino la sua tessera d’identità e lo trascinò al piano di sopra. Se avesse saputo dare il giusto risalto a quel gesto, il suo falso suicidio avrebbe suscitato scalpore e tutti ci avrebbero creduto. Doveva correre da Jump, il negozio di articoli sportivi aperto ventiquattro ore su ventiquattro, per comprare il materiale adatto alla messinscena. Costruita la commedia, era andato a casa di Taylor, per vedere Mary un’ultima volta. Passando dal cortile, aveva sporcato le scarpe di fango e, maniaco della pulizia qual era, non aveva resistito a rubare un paio di stivali puliti al fratello. Della cognata non c’era traccia, così era rincasato presto, con ai piedi gli stivali rubati, dimenticando le sue scarpe nella lavanderia di Taylor. Prese tutti i soldi che aveva in cassaforte e il passaporto del gemello: il nuovo Timoty Jackson aveva baffi e barba, ma nella fotografia la sua faccia era sorprendentemente riconoscibile. Prima che emergesse qualsiasi indizio che potesse incastrarlo, doveva andarsene, di corsa. Senza pensarci troppo, si era imbarcato sul primo aereo per il sud dell’America e poi aveva volato ancora, verso una meta sconosciuta al turismo e alla legge. Ora poteva finalmente considerarsi al sicuro e godersi per sempre la sua nuova identità. “Timoty Jackson! Una nuova vita! Un nuovo inizio! Me lo giocherò bene e fino in fondo, fratello!” sussurrò a se stesso, mentre una mano finì istintivamente alla sommità della tasca destra dei jeans. Sotto il tessuto, le dita calde e umide dell’uomo soffocavano la traccia indelebile di uno scomodo passato, proprio là, dove un tatuaggio a caratteri nobili campeggiava e tracciava in linee curve il suo originario ma già estinto nome: TOM.

Guida al vocabolario margaritegno (parte I)

Vi è mai capitato di essere in un posto con la convinzione che la vostra padronanza della lingua vi permetterà di comunicare perfettamente con chi vi sta attorno e, invece, di chiedervi se per caso avete frainteso paese, perché non capite assolutamente niente di quello che vi viene detto? A Margarita succede spesso. In parte, perché lo spagnolo del latino-america (castellano) non corrisponde esattamente a quello parlato in Europa, poi perché in Venezuela aspirano molti suoni, ne accomunano altri e spesso troncano le parole, infine perché a Margarita vige un dialetto locale, a volte incomprensibile perfino per un compatriota di terra ferma. Ma quello che più stupisce è la rapidità con cui un margaritegno verace snocciola frasi che una persona normale sarebbe capace di pronunciare solo dopo un duro allenamento di scioglilingua. Quando un margaritegno parla rimani sempre a bocca asciutta, perché mentre stai formulando la domanda, lui ti ha già risposto dove, quando, come e perché di quella successiva. E mentre tu cerchi inutilmente di aggrapparti all’unica parola che hai distintamente compreso per cercare una traduzione verosimile alle sue frasi, l’amico margaritegno dietro di te ride, perché ha capito alla perfezione la battuta di spirito che il tuo interlocutore ti ha rivolto. Allora ti prepari, perché sai già che ti chiederà: ‘Da dove vieni?’. Uff! Beccata anche stavolta! ‘Italiana’. ‘Ah! Italiana! Io ho un parente…’ Tutti a Margarita hanno almeno un lontano parente italiano! Quindi, nel caso vogliate venire a stanare le vostre lontane radici latine, ecco per voi una guida pratica, con qualche parolina che potrebbe esservi utile.

Coño, conchale

Non mettetevi a fare i santerelli! È la prima cosa che si impara di una lingua nuova. Alzi la mano chi non ha mai voluto sapere come si dicono le parolacce in inglese! La differenza è che qui l’apparato genitale maschile non fa tendenza, quindi, con poca grazia e finezza, sulla bocca di tutti c’è l’organo riproduttivo femminile: coño, appunto. Per chi invece non è avvezzo a un linguaggio scurrile, ecco spuntare il meno spinto conchale, un’esclamazione mista di stupore e rabbia, quello che possiamo tradurre come un ‘Accipicchia’.

Bravo, enchufalo

Se sei arrabbiato ‘estas molesto’, ma se sei inkazzato, allora ‘estas bravo’! Questo l’ho imparato a viva forza, quando a ogni piccola conquista della mia bambina che non aveva ancora due anni, mi complimentavo dicendole: “Brava!”. All’ennesimo sguardo di rimprovero di chi mi sentiva, ho capito che qualcosa non andava e ho dovuto giurare che non mi sarei più espressa con quel linguaggio rozzo. Quando qualcuno vi ha proprio fatto uscire dai gangheri e volete mandare a quel paese chi vi sta di fronte ‘enchufatelo’ è la parola che cercate. Cosa significa? Letteralmente infilare lo spinotto nella presa di corrente, quindi… devo farvi un disegnino?!

Mamona

Mettiamo il caso che siate a una riunione dell’asilo e che vi abbiano convocato con vostra figlia insieme a tutti gli altri genitori della stessa classe. Supponiamo che la vostra bimba di due anni abbia uno slancio d’affetto nei vostri confronti e non voglia staccarsi dalle vostre braccia. Ipotizziamo anche che imbarazzata, ma con sguardo languido, cerchiate una giustificazione per tanto attaccamento. Ecco: fermatevi e respirate! Che non vi salti in mente di darle della ‘mammona’. Mamitis! In questo caso si dice mamitis! Mamona (con una m ma si legge allo stesso modo) è il corrispettivo volgare di colei a cui piace fare sesso orale! E adesso immaginate la faccia dei genitori presenti a quella dannata riunione. …Ma perché capitano tutte a me??!

Mañana

La parola più diffusa a Margarita? Non c’è dubbio: mañana, cioè domani! Perché affrettarsi a compiere adesso qualcosa che si può tranquillamente rimandare a domani? Per inciso, ‘domani’ è un giorno generico, quindi potrebbe essere tra un mese, due o forse sei! Quindi se hai bisogno di un idraulico perchè ti si è rotto un tubo dell’acqua, non attenderlo con la mano a tampone sul tubo o potrebbero trovarti morto di vecchiaia con la mano ancora lì!

Rato, ratico

Siamo sull’onda di mañana. Rato, che in gergo significa un attimo, e ratico, cioè un attimino, servono solitamente per giustificare un ritardo. ‘Arrivo in un rato’, significa che se stai preparando il pranzo e hai già buttato la pasta, sbuffi rassegnato, perché sai già che la mangerai scotta. ‘Arrivo in un ratico’ invece, significa che ti conviene mangiare da solo, che tanto prima che arrivi il tuo ospite sarai a tempo per avere nuovamente fame!

Dale pues

Usatissimo quando non si sa più che dire, giusto per concludere un discorso. Noi quasi imbarazzati chiuderemmo con un: ‘Bene’ o ‘ok’. I più sfacciati azzarderebbero un: ‘Allora? La chiudi ‘sto cavolo di telefonata?’. Il margaritegno conclude con: ‘Dale pues’.

Buenas, chevere, fino

Dall’alba fino a mezzogiorno ci si saluta con un buenos dias, dopo l’una è meglio usare buenas tardes, fino alle otto, quando cala la notte e allora si utilizza buenas noches. Perché perdere tempo inutile? Ma soprattutto, perché affannarsi a controllare l’ora! Cosa accomuna ogni saluto? Buenas! Ecco il giusto saluto: adatto a ogni orario e per ogni evenienza! Per strada, tra persone sconosciute, è invece consuetudine salutare per esteso. Attenzione! Buenos dias como estas, letteralmente ‘buongiorno, come stai?’, non ha effetto interrogativo! Se ci tenete, potete sempre rispondere, ma affrettatevi a farlo, perché in realtà la frase è retorica. Si tratta di pura cortesia e se respirate prima di rispondere: “Bene, grazie!”, il vostro interlocutore avrà già attraversato la strada, perché in verità il vostro stato di salute non gli interessa. Vi consiglio invece di stupirli con un “Chevere, gracias!” o “Fino, gracias!”(benissimo, grazie!) e dall’altra parte della strada vi giungerà un cordiale “Me alegro!” (Ne sono felice!).

Gracias a Dios!

Non c’è niente però come la gratitudine del margaritegno alla vita, sintetizzata nella frase tipica “Gracias a Dios!” cioè ‘Grazie a Dio!’. Chiedetegli come si sente e se la risposta è positiva lui vi risponderà ‘Bene, grazie a Dio!’. Da questo c’è molto da imparare. Perché troppo spesso lo dimentichiamo: la vita è una sola ed è bene ringraziare per ogni giorno che ci è concesso.

 

 

 

Incendio al Margarita Plaza

Il ricco e il povero

Richard guardò oltre la porta a vetri del negozio e vide che l’auto del signor Henrito era parcheggiata al suo solito posto. Avrebbe atteso lì dentro ancora qualche minuto, prima di uscire col volto coperto e strappargli il telefonino che a lungo aveva agognato. L’uomo in questione era meticoloso e abitudinario: quattro minuti precisi e sarebbe salito in auto. Prima però avrebbe gettato un’occhiata alla finestra del suo appartamento, tirando con la mano un bacio a distanza alla finestra. Quel signore poteva permettersi qualsiasi lusso e dietro quella persiana socchiusa, sicuramente, si celava la sua giovane amante. La immaginava in pelliccia, vestita solo di gioielli appariscenti, ma prigioniera nel suo bel carcere dorato. Quell’uomo doveva essere così meschino e prepotente da costringerla in casa tutto il giorno, negandole qualsiasi possibilità di libertà, perché la voleva solo sua, schiava del suo potere. Meritava ciò che gli stava per accadere! Richard aveva deciso che sarebbe stato sua vittima, nell’esatto istante in cui lo aveva visto per la prima volta. Era successo due mesi prima, in un negozio di giocattoli. Richard si era recato là con i gemelli, per concedere un po’ di tranquillità a sua moglie. Quei due non avevano fatto altro che litigare per un pacchetto di figurine (l’unica cosa che lui si poteva permettere di comprare), bisticciando su chi le avrebbe scartate. Alla cassa il commerciante aveva salutato con un largo sorriso il signore in coda davanti a lui. “Buongiorno, signor Henrito! Cosa ha scelto oggi per la sua regina?” gli aveva chiesto, come se lo conoscesse da sempre. Dal portafogli erano sbucati più bigliettoni di quanti Richard ne avesse mai visti in vita sua. La sua giovanissima amante era un’appassionata di bambole costose, come la maggior parte delle poco più che adolescenti signore dell’alta società. Al polso sfoggiava un orologio delle dimensioni di un’albicocca, interamente d’oro. Abbigliato come se fosse appena uscito da una sartoria, sulla sua camicia non c’erano macchie di sugo o rigurgiti di neonato, come invece succedeva sempre a Richard. Un impeto d’ira nei confronti della propria sorte così ingiusta e impietosa s’impossessò di lui. Fu però quando suonò il cellulare che l’invidia per quell’uomo si trasformò in desiderio di vendetta, fermentando un proposito negativo nella mente. Dalla giacca che teneva accomodata su un braccio, sfilò il modello introvabile del giocattolino tecnologico più all’avanguardia che esistesse sul mercato. Conosceva alla perfezione il valore di quel gioiellino, perché quel medesimo pomeriggio ne aveva parlato con Tom, il ricettatore più popolare del suo quartiere. Proprio lui gli aveva rivelato di avere un acquirente pronto a sborsare una fortuna per quel telefono e ancora lui gli aveva confidato di essersi esposto, garantendogli che ne sarebbe stato il legittimo possessore entro breve tempo, pur non avendo nulla per le mani. Se fosse riuscito a sottrarglielo, avrebbe negoziato con Tom sul costo dell’affare, ricavandone una bella sommetta. Così erano partiti le sue ricerche, i suoi appostamenti e l’annotazione delle sue abitudini. Dal portiere del suo palazzo aveva saputo che il signor Henrito era gentile ma molto riservato. Richard però era certo che nell’agiatezza non ci fosse gratuità, che tutto avesse un costo e un prezzo: la sua non era gentilezza ma ipocrisia. Qualche vicino gli aveva svelato che si era trasferito lì da pochi mesi con una ragazza così giovane che poteva essere sua figlia. Usciva raramente dalla sua casa, solo per recarsi al lavoro, e rincasava sempre alla stessa ora, con un pacchetto diverso ogni giorno. Di mattino, puntualissimo usciva dalla portineria del palazzo, trenta secondi esatti di saluto alle persiane socchiuse e poi saliva sulla sua auto, parcheggiata nel viale di fronte al botteghino in cui si era rifugiato. Aveva studiato tutto nei minimi particolari. Meno dieci secondi: era giunto il momento! Mise il pugno nella tasca dei pantaloni, simulando una pistola nascosta e, sollevando il cappuccio della giacca per coprire la fronte e gli occhi, uscì rapidamente, senza che il negoziante potesse fermarlo. Non disse niente. Approfittando del saluto a distanza all’amante misteriosa con la mano libera afferrò il braccio dell’uomo e scrollandolo, gli sfilò dalla giacca il cellulare. Senza esitare attraversò velocemente la strada, sgattaiolò dentro una via buia e stretta, scese la scalinata della metropolitana, scavalcò il tornello con un balzo e, repentino, montò sul primo treno in partenza. Non sentì grida di aiuto o al ladro inveite contro di sé, forse perché si era fatto sordo per l’eccitazione e la concitazione del momento, o forse perché a quell’uomo non importava molto di perdere un telefono che valeva più di quanto Richard avesse mai guadagnato in anni di duro lavoro. Quando fu finalmente solo e tranquillo, abbassò il cappuccio. Era andato tutto liscio. Rilassò la mano nella tasca, ringraziando Dio che non fosse stato necessario simulare di possedere un’arma da fuoco, e guardò il piccolo tesoro che aveva appena rubato. Leggero e maneggevole, nonostante le dimensioni, era dotato di uno schermo di circa quindici centimetri ed era completamente privo di rigature e graffi, il che lo rendeva ancora più apprezzabile per il suo scopo. Velocemente disattivò ogni tipo di sicurezza sul dispositivo, così come gli aveva spiegato Tom, in modo che divenisse perfettamente irrintracciabile. Con soddisfazione lo ripose in tasca e tornò a casa.

Fu sua figlia maggiore ad aprirgli l’uscio. “Ciao, Shirley!” la salutò frettolosamente. Poi sgattaiolò nella sua camera, mentre i gemelli giocavano in cucina, dove sua moglie stava preparando il pranzo cullando tra le braccia la figlioletta di pochi mesi. Richard chiuse la porta della camera, per isolarsi momentaneamente e fare un bilancio degli eventi della giornata. Sapeva di non aver agito correttamente. Non era sua consuetudine rubare ma in qualche modo doveva pur provvedere al mantenimento della sua famiglia. Se la natura non lo aveva creato ricco, il destino lo aveva addirittura umiliato, burlandosi di lui: prima gli aveva offerto un impiego duro per pochi soldi e poi glielo aveva sottratto, con un licenziamento per esubero di personale. Aver rubato a un ricco prepotente e viziato lo faceva sentire come se avesse appena segnato gol all’ultima partita di un campionato importante: questa volta era stato lui a farsi beffa del destino, pareggiando in parte i conti tra povertà e ricchezza. Riprese il dispositivo tra le mani e cedette alla tentazione di provarlo. Incappò immediatamente nella galleria fotografica. Non c’erano molte immagini immortalate lì dentro. Le prime foto erano state scattate in quello che doveva essere il suo appartamento subito dopo il trasferimento. Soltanto la sala era più estesa dell’intero barrio dove viveva lui. Un lungo tavolo con almeno una decina di sedute era stato posto al centro, mentre sul fondo s’intravedeva un divano bianco, angolare, che appariva infinito. L’argenteria era ovunque: sul tavolo, sulla credenza adiacente alla parete opposta a quella in cui si vedeva il divano, appesa come accessorio d’arredo sulle mensole decorative. Quella stanza diceva tutto di quell’uomo: una persona eccentrica, precisa, fredda e boriosa, come tutta la gente del suo rango. Scorse l’indice sullo schermo. Stavolta aveva ripreso se stesso in un breve video in cui a labbra socchiuse diceva: “Ti voglio tanto bene”, seguito da un bacio diretto alla fotocamera. Ipocrita e falso! Che ne poteva sapere dell’affetto vero uno che può comprarsi tutto quello che vuole? La voce della figlia lo chiamò ricordandogli che il pranzo era pronto. Aprì la porta della camera e gettò rapidamente un’occhiata oltre la soglia. Sua moglie stava imboccando le due piccole canaglie dall’aspetto identico, mentre Shirley si stava occupando della piccolina, cantandole la sua ninna nanna preferita. Un sorriso gli illuminò il volto. Prima di aggregarsi al resto della famiglia, decise di vedere l’ultimo video che l’avaro signor Henrito aveva registrato nel dispositivo. Dall’inquadratura dell’appartamento sbucò il volto di una ragazzina dell’età di sua figlia. Completamente calva, con gli occhi infossati nel volto pallido e interamente privo di peluria, aveva l’aria stanca e lo sguardo spento e inerte di chi sta soffrendo da molto tempo. Visibilmente provata, con la voce interrotta dai respiri affannosi, si nascondeva il viso con le mani. “Ti prego, papà, non riprendermi” chiedeva incerta, sorridendo. “Perché non dovrei? Sei la mia regina!” gli rispondeva la voce profonda del signor Henrito. La ragazzina allora toglieva le dita magre dal volto smunto e spigoloso, come se non avesse desiderato altro. “Sono bella così?” chiedeva, scimmiottando un atteggiamento sexy e provocante, mettendo in risalto la sua eccessiva magrezza. “Sei sempre bellissima! Sono tutti invidiosi qui sotto, quando ti mando i miei baci prima di andare al lavoro!” dichiarava lui, continuando a riprenderla. “Continueranno a essere invidiosi tra qualche giorno, quando non ci sarò più?” lo interrogò lei, facendosi triste, mentre la tosse irrompeva prepotente, costringendola a chinarsi sul letto cosparso di bambole. Il video terminava all’improvviso, con l’immagine trascinata a terra e interrotta. Richard impallidì. Con uno scatto fulmineo corse nel bagno a lavarsi ripetutamente le mani, senza riuscire a sentirsi pulito. Si fissò nello specchio, provando vergogna per la figura che vedeva riflessa. La situazione si era ribaltata: il signor Henrito non era arrogante e meschino e Richard si sentiva immensamente stupido. Il suo senso del giudizio aveva fallito miseramente: la natura gli aveva dato molto più di quanto avesse creduto. Doveva rimediare. S’infilò il giubbetto con cui aveva compiuto il colpo e uscì dalla sua stanza. Guardò a lungo i suoi figli che giocavano sereni, trasformando dei piccoli pezzi di carta in coriandoli e lanciandoli in aria, per la fantastica conquista di un castello immaginario. Poi osservò le figlie: la piccola, addormentata con il ciuccio in bocca e la testa abbandonata sulle braccia della più grande. Raggiunse Shirley, la abbracciò con forza e la baciò dolcemente sul capo, pago per la gioia di averla lì con sé e compiaciuto per il suo volto tondo e i suoi occhi vispi. Lei lo guardò sorpresa, ma contraccambiò l’abbraccio. Infine esaminò sua moglie, sempre bellissima, nonostante le curve più morbide e burrose dovute alle gravidanze. Per un attimo incrociò il suo sguardo e amorevolmente lei gli sorrise, invitandolo a prendere posto al tavolo. Richard però si congedò a gesti, indicando che sarebbe tornato subito.

A volto scoperto, senza nascondersi si presentò davanti all’uomo a cui aveva sottratto il telefono, nel suo ufficio, proprio nel luogo dove lavorava. Il signor Henrito lo guardò e lo riconobbe come il ladro del mattino, ma non proferì parola. In silenzio Richard restituì l’oggetto che teneva tra le mani. Il signor Henrito lo scrutò a fondo. Poi, sprofondando nella sedia dietro la scrivania, lo interrogò: “Perché?”. “Perché ho sbagliato”, rispose Richard, riassumendo in quella frase sia il motivo del furto sia quello della restituzione. “Come sa che non la denuncerò?” insistette il derubato, cercando di provocare la reazione nel ladro. “Non lo so, ma sono disposto ad assumermi le mie responsabilità” rispose Richard con semplicità. Un silenzio carico di tensione invase l’ufficio. “Un errore è concesso a tutti” disse quasi sottovoce, ma con tono deciso.  “Le offro la possibilità di ricominciare: ne faccia un buon uso!” risolse poi, sorprendendolo. Per Richard fu la conferma di quanto si fosse equivocato nel giudicare quell’uomo. Senza aggiungere altro, si alzò, con le spalle chine, sentendosi ancora più colpevole di quanto non lo fosse stato entrando, e prese la direzione della porta di uscita. “Ha figli?” lo interpellò ancora una volta, prima di lasciarlo andare. “Sì. Quattro” rispose, ripensando ai coriandoli lanciati in aria dai gemelli, alla dolce nanna della piccolina e al vigoroso abbraccio di Shirley. Poi, mosso da compassione per quell’uomo gentile, come se in quel modo potesse esprimergli il suo rincrescimento, aggiunse: “La maggiore ha l’età della sua”.  Il signor Henrito cambiò espressione. Deglutì a fatica, strabuzzando gli occhi: qualcuno conosceva il suo segreto e forse anche la sua pena.  Sul suo volto allora si palesò una domanda e Richard confermò col capo: sì, aveva visto il video; sì, era dispiaciuto e sì, si rammaricava della triste sorte che gli era capitata. Nessuno dei due disse altro per qualche secondo: non c’erano parole abbastanza potenti da esprimere la sofferenza e nemmeno tanto poderose per riuscire ad alleviarla. “Allora saprà quanto è fortunato!” concluse con voce tremante il povero signor Henrito. Richard annuì silente, poi richiuse la porta alle sue spalle. Era davvero fortunato: ora sapeva di essere l’uomo più ricco del mondo.